Chiuso il capitolo manovra, sta per iniziare sul serio la partita sulla legge elettorale. Da sempre ostica per il grande pubblico, che si perde nel labirinto dei tecnicismi e dei modelli ricavati da un centinaio di Paesi spesso molto diversi in tutto e per tutto dal nostro, è invece la faccenda più importante per le forze politiche. Per i partiti è quella la principale questione spesso di vita o di morte. Di conseguenza le modifiche delle leggi elettorali sono sempre una storia tra le più complesse, rischiose e travagliate. Stavolta molto più del solito perché la riforma elettorale si intreccia con il percorso del referendum confermativo della riforma costituzionale che impone il taglio di un terzo dei parlamentari e con quello del referendum abrogativo della quota proporzionale nella legge attualmente in vigore.

Salvo improbabilissimo ritiro della firma di alcuni tra i 65 senatori che hanno chiesto il referendum confermativo, le urne verranno aperte sei mesi dopo il 12 gennaio. Sull'esito della prova, che non richiede quorum essendo una consultazione di ordine costituzionale e confermativa, ci sono pochissimi dubbi. Il taglio dei parlamentari verrà però posticipato di sei mesi, con ricadute ovvie sulla tentazione per i partiti di sciogliere le camere in quel lasso di tempo per votare un Parlamento non ancora decurtato aumentando notevolmente la propria rappresentanza nella prossima legislatura. Poi, il 15 gennaio, la Corte costituzionale si esprimerà sull'ammissibilità del quesito leghista. Il problema di ordine costituzionale è che i referendum elettorali devono essere “autoapplicativi”, devono cioè partorire automaticamente una nuova legge elettorale per evitare una vacatio legis, una fase nella quale, se la legislatura finisse all'improvviso, non si saprebbe come votare.

Il quesito leghista è per molti versi “autoapplicativo”: delinea cioè una legge precisa, un maggioritario secco senza correzioni proporzionali. Il limite costituzionale starebbe però nell'obbligo di ridisegnare i collegi, essendo impossibile votare con una legge maggioritaria senza rimettere mano agli stessi. Qui i sentieri delle due prove referendarie si intrecciano. Una volta approvata la riforma costituzionale, in tempi contestuali sia pur non sovrapponibili perché i due referendum non potrebbero essere celebrati insieme, i collegi andrebbero ridisegnati comunque. Secondo alcuni pareri verrebbe così a cadere la vacatio legis.

Il punto critico è che, seppure l'approvazione del taglio dei parlamentari da parte del popolo votante è in concreto certo, non altrettanto può dirsi in punta di diritto. Esiste la possibilità che la riforma sia bocciata e in quel caso l'obbligo di ridisegnare comunque i collegi verrebbe a cadere. Si spiegano così i dubbi della maggioranza: conviene presentare una bozza di nuova legge elettorale subito, già nelle prossime due settimane, in modo da condizionare il verdetto della Corte, o è invece consigliabile attendere quel responso? Entrambe le tesi dispongono di validi argomenti. Portare un testo di legge di fronte alle commissioni parlamentari prima del verdetto della Consulta depotenzierebbe di fatto la proposta leghista, dal momento che quel quesito chiede di modificare una legge che il Parlamento ha già deciso di cancellare e sostituire con un nuovo modello. D'altra parte, ufficializzare la decisione di cambiare la legge elettorale vanificherebbe l'eventualità, pur solo teorica, di non dover rimettere mano ai collegi, dal momento che una nuova legge comporterebbe comunque quell'obbligo. Verrebbe così meno uno dei principali argomenti, se non l'unico, a favore dell'inammissibilità del referendum della Lega.

Ma la maggioranza è in grado di presentare una progetto unitario di legge elettorale nel giro di due settimane? In realtà no. Un vero accordo ancora non c'è. Ma si tratta di un problema minore. Tutte le forze della maggioranza sono consapevoli che quel progetto di legge sarebbe solo una bozza, passibile di modifiche anche radicali in commissione. Sarebbe un punto di partenza, non di arrivo. Le posizioni in campo sono distinte, anche se ufficialmente tutti concordano sulla necessità di dar vita a un sistema proporzionale. Il Pd lo vuole con una soglia di sbarramento alta, al 5%, oppure, secondo il sistema spagnolo, con soglie di sbarramento “naturali,”, cioè dipendenti dalle dimensioni dei diversi collegi. Il M5S su questo punto chiave concorda con il Nazareno. Non così LeU, o meglio la parte di LeU che proviene da Sinistra italiana, che accetterebbe il sistema spagnolo ma non la soglia di sbarramento al 5% e soprattutto non così Italia viva, che non vuole il sistema spagnolo e mira a una soglia di sbarramento più bassa: il 3%. E' infine da verificarsi la reale disponibilità dell'intero Pd a cancellare del tutto il maggioritario. Nel corso del lungo dibattito in commissione è al contrario probabile che i pasdaran del maggioritario torneranno alla carica chiedendo almeno una correzzione in quel senso.

Sempre che il Parlamento disponga davvero del tempo necessario per modificare, con tutta calma, il sistema elettorale. Se infatti i due referendum dovessero celebrarsi entrambi e la proposta leghista, che però richiede il quorum del 50% dei votanti, fosse accolta sarebbe molto difficile non sciogliere le Camere subito dopo. Ma ancora prima, la tentazione per i partiti della stessa maggioranza di evitare il rischio di trovarsi con un manciata di parlamentari in seguito al combinato fra taglio degli stessi e sistema maggioritario, spingerebbe molti ad aprire la crisi prima di schiudere le urne.