Nessuna sorpresa al Senato. Impossibile del resto, come ha segnalato beffardo il capogruppo leghista Romeo, non votare la mozione del Pd ridotta a una sola riga proprio per eliminare ogni ostacolo alla convergenza del Carroccio sulla prima mozione pro Tav sottoposta al voto.

Le sorprese, in compenso, sono arrivate con l'intervento proprio di Romeo: per quel che ha detto e ancora di più per come lo ha detto. Il tono infatti era quello di un addio, quasi più sentimentale che politico.

Il capo dei senatori leghisti ha ricordato i bei momenti passati insieme, le ' tante cose' realizzate da questa maggioranza e da questo governo, le difficoltà bravamente superate.

Ora però l'idillio è finito. La Lega non può più accettare alcun no. Perché così ' si paralizza il Paese' ovviamente. In nome dell'interesse generale.

Salvini, presente in aula ma silente, ha dunque scelto di usare l'ordalia Tav e la divisione clamorosa della maggioranza, resa ancor più fragorosa dall'ordine sparso con cui lo stesso governo si è presentato all'aula, per esercitare apertamente il suo diktat.

Non ci sono infatti dubbi sul significato del durissimo intervento di Romeo, di quel sibillino «ci saranno conseguenze» certamente ispirato da Salvini. In ballo, per la Lega non c'era la Tav, battaglia già vinta con esiti disastrosi per i 5S che hanno massimizzato il danno con una mozione ipocrita, depotenziata all'origine, messa in campo sperando di perdere per salvare la faccia di fronte a un popolo No Tav che invece si è ancor più infuriato sentendosi preso in giro.

In ballo c'è il bivio tra la prosecuzione del governo ma con il timone d'ora in poi saldamente nelle mani del capo leghista e una crisi di governo in tempo utile per votare entro la fine di ottobre.

Del resto non sono solo i 5S a uscire devastati dalla sfida sulla Tav. Il premier, dopo essersi assunto pubblicamente la responsabilità della scelta sulla tratta Torino- Lione, non ha osato difenderla pubblicamente. Ha lasciato che a nome del governo si esprimesse un viceministro, il leghista Garavaglia, contro la mozione del partito di maggioranza relativa mentre ufficialmente il governo si «rimetteva all'aula» senza chiedere di sostenere la propria linea.

Ma non è solo questione di Tav. Conte, dopo aver provato a fronteggiare l'impeto del leghista, è negli ultimi giorni quasi uscito di scena. E' rimasto muto di fronte all'ennesimo scippo delle prerogative sue e del ministro dell'Economia sulla legge di bilancio, appena due giorni fa. Ha lasciato che il ministro degli Interni gestisse il dl Sicurezza e ogni crisi delle navi Ong come se fosse lui il capo del governo.

Le eventuali dimissioni del ministro Toninelli, che sembrano sempre più solo questione di tempo e che lo stesso ministro sembrava prefigurare ieri non basterebbero.

Il segno del cambio di passo, il prezzo per non mettere in crisi il governo costringendo quasi certamente i 5S ad affrontare elezioni probabilmente esiziali e l'accettazione di un governo che sia di Salvini in tutto tranne che nel nome. A partire dalle autonomie, ultima trincea già quasi espugnata dei 5S e dalla legge di bilancio, dove invece sotto scacco sono Conte e Tria.

La mano di poker sulla Tav avrebbe dovuto chiudere la partita prima della pausa estiva. Dal clima che si respirava ieri al Senato subito dopo la seduta è invece possibile che la mano decisiva si apra solo ora. Ieri, dopo la fine della seduta, Salvini ha inviato un messaggio a tutto lo stato maggiore, chiedendo di restare a portata di mano nei prossimi giorni.

I tempi della scelta devono infatti essere per forza rapidi. I 5S devono scegliere prima della fine di agosto se cedere al leghista il bastone del comando oppure provare a resistere.  Salvini deve valutare se la resa dei 5S gli basta o se pretende una resa incondizionata. Entrambi hanno tempo fino alla fine di agosto per scegliere la strada, sapendo che imboccare quella sbagliata sarebbe probabilmente fatale.

Perché su una cosa Mattarella è stato tassativo: dopo il quarto voto sula riforma costituzionale non sarebbe possibile aprire le urne prima di aver completato il percorso per la riduzione dei parlamentari.

Questione di mesi, non più di settimane