Tullio Padovani è innanzitutto un avvocato. Militante, seppur non “associativo”. È un professore – ed è anche tra i pochissimi avvocati e professori di Diritto penale a essere stati accolti nell’Accademia dei Lincei – ma non ha alcunché di quella sindrome accademica di cui a volte soffrono gli studiosi. Al punto da essere impietoso nei giudizi: «Le turpitudini, la cultura sanguinaria sul carcere e sul processo sono inestirpabili. Anzi sono destinate ad aggravarsi».

Lo spunto viene dal recente ritorno in libertà di Salvatore Raimondi, uno dei tre responsabili della morte di Tommaso Onofri, per tutti, e per sempre, il piccolo Tommy: Raimondi ha finito di scontare la condanna a 20 anni, grazie ai benefici di cui ha goduto ma, soprattutto, a una pena originaria mitigata dall’adesione al rito abbreviato. Un salto all’indietro in una storia orribile e dolorosissima che ha suscitato, nello scorso fine settimana, l’assolutamente dignitosa reazione della madre di Tommy, Paola Pellinghelli: la donna ha ricordato come il proprio “ergastolo” di sofferenza sia “a vita” e, senza inveire contro la scarcerazione definitiva di Raimondi, ha negato ogni possibile “perdono”. Ma c’è chi, come il vicepremier Matteo Salvini, non ha perso l’occasione per esclamare «questa non è giustizia».

E anche se il brusio della politica non è andato oltre il commento del leader leghista, resta la conferma che la cultura della pena in Italia è molto claudicante, vero professor Padovani?

Non esiste alcuna cultura della pena in ampi settori dell’opinione pubblica. Non mi riferisco al dignitosissimo contegno dei familiari della vittima, della madre di Tommy che ha tutto il diritto di esprimere il proprio strazio e anche il disappunto per il ritorno in libertà di chi è corresponsabile della morte di suo figlio. Mi riferisco a quanto avviene in generale ogni volta in cui si assiste a un ritorno in libertà, a un permesso premio per chi sconta condanne relative a un terribile delitto. Si scatenano puntuali l’odio, l’incultura, senza alcuna continenza, moderazione, discernimento. Si scatenano sui social. Una turpitudine che è impossibile fermare.

Ma la politica forse sottovaluta che assecondare tanta ferocia poi le si ritorce contro, nel momento in cui le persone inveiscono su un politico indagato e presunto innocente.

Sì, ma non vedo come un paradigma del genere possa cambiare. Si approfitta della sventura giudiziaria altrui e si solidarizza, magari con annesso attacco ai giudici, quando la sventura giudiziaria riguarda chi milita nello stesso partito. Il fenomeno della giustizia travisata in vendetta c’è, è sempre esistito. Ora è esploso, certo, in una forma incontrollabile.

È peggiorata addirittura, la cultura costituzionale degli italiani, la consapevolezza di quella funzione della pena magistralmente descritta in un’intervista alla Stampa dalla pg di Torino Lucia Musti?

Allora, premessa: ho letto l’intervista alla procuratrice Musti e l’ho trovata esemplare. È correttissimo il richiamo a norme sull’esecuzione penale coerenti a loro volta con principi fissati dalla Costituzione. Ho trovato non burocratico ma valoriale il discorso della dottoressa Musti. Ciò detto, il fenomeno opposto, quell’idea opposta di pena da legge del taglione è esplosa, come dicevo, per via dei social. Noi abbiamo sempre avuto, nelle nostre società, una quota tutt’altro che trascurabile di squilibrati, di persone orientate a sfogare nell’odio e nella sete di vendetta pulsioni patologiche. Solo che prima stavano nei bar e nelle osterie. Ora quell’onda di violenza e livore dilaga attraverso il computer. Arriva ovunque. Si moltiplica. E non mi convincerete mai dell’impossibilità oggettiva di controllare i social. A chi la si vuole dare a bere? I mezzi per rendere gli odiatori in rete responsabili esattamente al pari di chi scrive su un giornale esistono eccome. Bisognerebbe individuare o rendere individuabile chiunque sfoghi in quel modo la propria patologica sete di vendetta. Ma dubito che la valanga possa essere arginata, ormai.

Di certo la classe dirigente della prima Repubblica assecondava assai meno queste pulsioni.

Erano altri i tempi, non esisteva internet, anche se il livore, l’odio, la violenza verbale trovavano eccome il modo di esprimersi. Lei è troppo giovane per ricordarsi del Borghese e di Gianna Preda, che accompagnava le foto del democristiano di turno sorpreso a infilarsi le dita nel naso con articoli ferocissimi. La durezza dell’espressione, l’attacco indiscriminato non sono un frutto della modernità. Solo che in passato si poteva essere chiamati a risponderne. Giovannino Guareschi fu citato per diffamazione da De Gasperi. Prese un anno di carcere senza condizionale, non impugnò la sentenza e tra il ’54 e il ’55 se ne stette un anno dietro le sbarre, e diede tra l’altro un esempio di coerenza oggi impensabile.

A proposito delle vittime: lei giustamente ricordava come il loro dolore e le loro parole non possano essere confuse col resto: la giustizia riparativa può offrire un contributo per ricomporre le ferite aperte da delitti così atroci?

In casa mia la giustizia riparativa non si nomina neppure. È una presa in giro. Possono darla a bere ad altri, non al sottoscritto. È un inganno con cui si cerca di nascondere la vergogna della nostra esecuzione penale e delle nostre carceri, soprattutto. Che sono un altro riflesso dell’inciviltà di cui sopra. Andrebbero chiuse. Se si scopre che in una casa di riposo gli anziani vengono tenuti in modo non conforme alle norme sulla salute, alla dignità, cosa fanno le forze dell’ordine? Chiudono la casa di riposo. Stessa cosa dovrebbe avvenire per le carceri: chiuse perché inadeguate ad assicurare un’esecuzione della pena rispettosa della legalità, semplicemente della legalità.

Impossibile non sottoscrivere.

Visto che non m’illudo sul miglioramento delle strutture, bisognerebbe rassegnarsi all’idea che il nostro sistema penitenziario è compatibile con la permanenza di ventimila reclusi, venticinquemila al massimo. Individuati per l’enorme gravità dei reati o per la assoluta pericolosità sociale. Gli altri non dovrebbero stare in carcere.

La pg Musti è un esempio del ruolo culturale che giustifica, assai più degli accordi sulle nomine al Csm, l’esistenza dell’Associazione magistrati?

Aspetti un attimo. Ribadisco che trovo esemplari le parole della procuratrice. Ma non credo si possa farne derivare una legittimazione ontologica dell’Anm. Certo, per carità: l’Associazione magistrati e le stesse correnti nacquero per dare espressione e sintesi a diversi approcci culturali alla giurisdizione, ma si trasformarono molto presto nello snodo per l’esercizio di un potere incontrollato. Ancora oggi insisto nel dire che la nostra è una Repubblica giudiziaria fondata sull’esecuzione penale e che la sovranità appartiene ai pubblici ministeri. Andrebbe riscritto l’articolo 1 della Costituzione. La separazione delle carriere non porrà rimedio a questa gigantesca distorsione delle democrazia. E lo dico pur a fronte di esempi preziosi come quello offerto dalla procuratrice generale di Torino.