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LUCIA MUSTI PROCURATORE GENERALE CORTE D'APPELLO TORINO
Salvatore Raimondi, uno dei protagonisti del sequestro del piccolo Tommaso Onofri, è tornato in libertà dopo aver scontato una pena di vent’anni di carcere. Non gli era stata riconosciuta la responsabilità diretta dell’omicidio, ma il suo ruolo nel rapimento del bimbo di 18 mesi, la sera del 2 marzo 2006 a Casalbaroncolo, segnò per sempre la memoria collettiva.
Fu lui a staccare Tommy dal seggiolone e a lasciare l’impronta sul nastro adesivo usato per immobilizzare la famiglia. Un mese dopo, fu anche il primo a confessare, indicando come responsabile materiale dell’uccisione Mario Alessi, condannato poi all’ergastolo insieme alla compagna Antonella Conserva, che sta scontando 24 anni. Durante la detenzione Raimondi ha scelto di non chiedere permessi premio, ma ha beneficiato della liberazione anticipata ed era già da tempo in semilibertà.
Usciva la mattina per lavorare come operaio e rientrava in carcere la sera. Ora ha terminato definitivamente di scontare la sua pena. La madre di Tommy, Paola Pellinghelli, ha accolto la notizia con amarezza: «Prima o poi me l’aspettavo, visto che era già in semilibertà. Che si goda la sua vita, noi invece siamo condannati per sempre». E ancora: «Non auguro il male a nessuno, ma non voglio sentire parlare di perdono. Per me sono tutti e tre sullo stesso piano. Mio figlio non l’ho visto crescere, non ce l’ho più. Il 6 settembre compirebbe 21 anni». Parole che esprimono l’ergastolo interiore di una madre, destinato a durare più di qualsiasi condanna inflitta in tribunale.
Sul caso è intervenuta Lucia Musti, oggi procuratore generale di Piemonte e Valle d’Aosta, che nel 2006 fu tra i pm dell’indagine. «La mamma di Tommy racconta che lei ha un ergastolo a vita e capisco benissimo questa dichiarazione — spiega —. So altrettanto bene che la sua pena durerà fino all’ultimo minuto della sua vita. Ma nella scarcerazione di Raimondi non vi è alcuna mancanza: è stata applicata una legge dello Stato all’esito dell’osservazione dell’esecuzione della pena, con le valutazioni della magistratura di Sorveglianza, di educatori, psicologi e assistenti sociali». Musti sottolinea che Raimondi aveva scelto il rito abbreviato: «La legge gli ha consentito di passare da 30 a 20 anni di carcere. È lo Stato di diritto: si applicano norme generali, non sentimenti individuali, per quanto comprensibili e profondi».
Alla domanda sul rifiuto di perdonare da parte della madre di Tommy, Musti risponde: «Il perdono è un dono e chi riesce a perdonare trova una forma di pace interiore. Ma non è un obbligo, non è dovuto. Non possiamo pretendere che una madre cancelli un dolore simile. Ogni cittadino ha il diritto di ritenere che una pena non sia commisurata al fatto. Pensiamo alle condanne molto più miti in casi di omicidio stradale o per colpa medica: anche lì viene tolto il bene fondamentale della vita umana. Il punto è se vogliamo continuare ad avere uno Stato che applica la Costituzione e i principi rieducativi, oppure se vogliamo scivolare verso la legge del taglione».
Musti rievoca anche i giorni concitati delle indagini del 2006: «Lavorammo per un mese senza sosta, giorno e notte. Il giorno del blitz a Parma ho negli occhi quel corridoio del castello ducale dove erano arrivati gli investigatori da tutta Italia. Capimmo che il bimbo non c’era più quando vidi colleghi con le lacrime agli occhi. Fu un colpo fortissimo. Tommy me lo sognavo di notte, lo avevo dentro le vene. Tutti noi tenevamo la sua foto sulla scrivania: ci dava forza e speranza. Ma la svolta arrivò proprio con Raimondi che, succube di Alessi, crollò e confessò. Le sue dichiarazioni furono ritenute credibili e ci permisero di restringere il campo: fino a quel momento avevamo firmato centinaia di decreti e intercettazioni».