Non solo Stati Uniti. Nel piano per il cessate il fuoco a Gaza un ruolo rilevante lo ha svolto la Turchia. «La Turchia – commenta Marco Di Liddo, direttore del Cesi (Centro studi internazionali) - in questo momento si pone come alternativa ad Israele. A tal proposito ha bisogno di una causa che legittimi la propria azione a livello regionale e non c'è causa migliore di quella palestinese».

Direttore di Liddo, si apre una nuova fase in Medio Oriente dopo l’approvazione del piano di pace per Gaza?

«È prematuro dirlo. Si apre uno spiraglio per l’interruzione della fase più acuta delle violenze. Si getta una base non trascurabile per costruire un dialogo più forte. Occorre però essere realisti. I fattori critici, sia dal punto di vista politico che securitario, sono ancora tanti e il percorso per una stabilizzazione degna di questo nome è ancora lungo e impervio».

Il sostegno degli Stati Uniti è stato fondamentale. Israele sarà nei prossimi anni l'osservato speciale di Washington?

«Il contributo degli Stati Uniti è stato molto importante al pari di quello degli altri Paesi mediatori, quali Qatar, Egitto, Arabia Saudita e, soprattutto, Turchia. Israele non è l'osservato speciale, ma il partner speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente. Tutta la strategia mediorientale degli Stati Uniti si fonda su quello che sarà il ruolo e su quella che sarà la responsabilità politica che Israele intenderà assumersi a livello regionale. Sostanzialmente il disegno di Washington è rimodellare il Medio Oriente con Israele come potenza regionale, quindi come architrave di un nuovo sistema politico, economico con un occhio di riguardo alla sicurezza».

Lei ha appena fatto cenno alla Turchia. Si parla poco del contributo offerto dai mediatori inviati da Erdogan. L'Europa dovrà fare sempre di più i conti con l’influenza non solo regionale di Ankara?

«L'Europa già deve fare i conti con la politica di influenza turca, non solo in Medio Oriente, ma anche in Africa orientale, in quello che Ankara considera il quadrante della propria proiezione di capacità a livello economico, politico e militare. La Turchia in questo momento si pone come alternativa ad Israele. A tal proposito ha bisogno di una causa che legittimi la propria azione a livello regionale e non c'è causa migliore di quella palestinese. In questo senso i turchi hanno ripreso quello che era un vecchio schema strumentale e manipolatorio, chiamiamolo così, degli anni della guerra fredda. Hanno utilizzato i Paesi arabi contro Israele, sostenendo la causa dei palestinesi. Siccome i paesi arabi adesso invece vanno in un'altra direzione, che è quella sostanzialmente degli accordi di Abramo e per gli accordi di Abramo la causa palestinese deve essere, entro certe forme, sacrificata, ecco che subentra la Turchia. Ankara, passo dopo passo, sta costruendo il suo sistema di alleanze e la sua rete. Ha cominciato col Qatar, ha allungato le proprie braccia in Siria. Il terzo passaggio sarà quello di utilizzare la questione palestinese per aumentare il suo peso specifico».

Hamas scomparirà definitivamente da Gaza? Pensa che si riorganizzerà altrove?

«Io credo che parlare di sigle sia superficiale. Noi non dobbiamo focalizzarci su Hamas in quanto movimento strutturato, dobbiamo focalizzarci sulla ideologia politica alla base di Hamas. La domanda che ci dobbiamo fare è: “Il radicalismo islamista sparirà da Gaza e dal fronte palestinese?”. Dubito, perché ci sono tanti fattori che ancora alimentano la sua narrativa e i suoi meccanismi di reclutamento, a partire dal sentimento di rabbia e di alienazione della popolazione palestinese e dal sentimento di vendetta che tutte le famiglie delle vittime nutrono nei confronti di Tel Aviv».

La smilitarizzazione di Hamas richiederà molto tempo. La forza multinazionale di sicurezza di cui si parla avrà questo ingrato compito?

«Assolutamente sì. Dovrà farlo per dare legittimità ai prossimi passaggi del processo di stabilizzazione, perché non ci sono altre organizzazioni o altre formule in grado di fare quel tipo di lavoro ed essere percepiti contestualmente come garanti terzi dall'una e dall'altra parte in conflitto».

Il voto favorevole del governo israeliano sull’accordo per il cessate il fuoco potrebbe indurre Netanyahu ad avvicinarsi alla parte politica più moderata e scaricare i falchi del suo esecutivo?

«Netanyahu è un politico navigato e pragmatico. Ha sempre cercato di cavalcare l'onda della destra più conservatrice quando gli serviva e prendere le distanze quando questa cominciava a diventare pericolosa. Il problema è un altro: riguarda il cambiamento degli orientamenti sociali e quindi politici del popolo israeliano. Io credo che il popolo israeliano nell'ultimo decennio abbia visto un'evoluzione di certe percezioni e visioni politiche più in direzione dei contenuti della destra estrema. La destra estrema lo sa e al momento utilizza Netanyahu, ma la sua è una partita che si gioca nel lungo periodo con l’ambizione di diventare la forza egemone nel Paese e realizzare l’obiettivo della grande Israele».

L'Europa è la grande assente in questo momento?

«Spiace dirlo, ma è proprio così. Lo hanno dimostrato le dinamiche e le immagini del negoziato dei giorni scorsi con i rappresentanti di Stati Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Egitto e Turchia. Non c'era alcun rappresentante europeo. Anche se adesso si prova ad accelerare per attribuire un ruolo significativo ai Paesi europei. Ma non sarà semplice, perché per stabilizzare il Medio Oriente c'è bisogno di un impegno diretto, concreto e duraturo nel tempo. Bisogna vedere quali Paesi hanno la voglia, la forza e gli strumenti per dare un valore aggiunto. Una strategia intelligente sarebbe quella di non andare da soli, ma presentarsi come Unione Europea e, quindi, come moltiplicatore delle nostre forze. Però bisogna vedere se le agende politiche individuali di ciascun membro avranno la priorità o se invece si vorrà far prevalere una linea comune. Questo è un tema da indovini non da analisti».