La situazione politica, vista nel suo complesso, presenta un quadro piuttosto disordinato e contraddittorio. Il Governo è giunto, in un continuo crescendo, ad un punto massimo di conflitti e di contraddizioni al suo interno. Mentre si comincia a discutere della prossima legge di Bilancio in questa situazione estremamente caotica, quello che a noi interessa è fornire una ricostruzione, il più possibile attendibile e fondata sui dati a disposizione, della situazione economica ed occupazionale. La domanda alla quale vogliamo rispondere è relativa alla fondatezza del miglioramento quantitativo e qualitativo della occupazione, come ci segnala l’ISTAT da due mesi a questa parte, in un quadro economico segnato da indici prevalentemente negativi. Cominciamo dall’inizio.

Quando l’ISTAT ha fornito i dati dell’andamento dell’occupazione relativi a maggio e, recentemente, a giugno, ha messo in luce una crescita importante dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, a tempo determinato e un incremento del lavoro autonomo. In relazione a questo trend, il tasso di attività è risultato anch’esso in crescita fino a toccare la soglia del 59%, dato che non si raggiungeva dal lontano 1977. Per tasso di attività si intende la percentuale di persone al lavoro rapportate a tutte quelle comprese tra le età di 15 e 64 anni. Indubbiamente un risultato di successo, immediatamente attribuito dal vicepremier Di Maio agli effetti del Decreto Dignità.

Ma le cose stanno veramente così? Noi insistiamo sulla necessità di leggere i dati anziché per singoli spezzoni, in “verticale”, accostandoli tra di loro, cioè in “orizzontale”, al fine di fornire una lettura che tenga conto della complessità della situazione e non della convenienza del momento. La prima osservazione che facciamo è quella relativa alle ore lavorate. Ormai è chiaro a tutti che non abbiamo recuperato il monte ore del 2008, anno dell’inizio della crisi. Secondo Vincenzo Colla, vicesegretario generale della Cgil, mancherebbero all’appello, su base annua, circa un miliardo di ore che corrispondono a 588.000 lavoratori “scomparsi” ( le ore mediamente lavorate in Italia in un anno sono 1.700). Poiché non risulta che, in questi anni, ci siano stati negoziati sindacali che abbiano ridotto l’orario di lavoro ( vi ricordate le famose 35 ore?), se ne deduce che c’è stata semplicemente una redistribuzione delle ore esistenti e in calo: più teste equivalgono a meno ore pro capite. Non a caso aumenta il part time obbligato, che in molti casi evita il licenziamento. Ma non solo. Come ha evidenziato Agostino di Maio, direttore generale di Assolavoro, nel mese di marzo, dati INPS, cresce il lavoro occasionale del 46,2%, il lavoro intermittente del 7,5% e le partite IVA che sono state aperte nei primi tre mesi di quest’anno sono state 196.000, più 7,9%, delle quali il 77% di persone fisiche, ad indicare un ulteriore rafforzamento del processo di frammentazione e di precarizzazione del lavoro. Da questi numeri si può soltanto ricavare un dato: che l’aumento “statistico” di coloro che lavorano non corrisponde ad un impiego di qualità e ad un miglioramento delle retribuzioni: il segno prevalente è quello dell’aumento del lavoro precario e, di conseguenza, delle basse retribuzioni derivanti dagli orari individuali più corti. Il part time ne è un esempio. Si obietterà che aumenta il lavoro a tempo indeterminato anche grazie alle trasfor-mazioni da tempo determinato. Ma, anche in questo caso, c’è una sorpresa sempre da Assolavoro. Dice il direttore generale Agostino Di Maio: “La somministrazione si sta facendo carico delle assunzioni a tempo indeterminato più di qualunque altra componente del mercato del lavoro: un terzo circa di questi assunti ( oggi circa 70.000) sono dipendenti dalle Agenzie”. C’è di che meditare e molto da approfondire, se non ci si vuole limitare alla pura propaganda e a una lettura di comodo dei dati.