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Panico nel Lazio per un cittadino bengalese positivo al covid che aveva viaggiato su un bus cotral
Continuano a grandinare i dati dei contagiati e dei morti, triste contabilità di una pandemia che non conosce fine. Grandinano anche le polemiche sulla gestione dell’emergenza, su come il governo si è attivato, le manchevolezze, le mezze verità. Forse dimenticando che è stato affrontato un morbo sconosciuto e potentissimo, e l’Italietta delle mille manchevolezze ha retto come e meglio di tanti altri Stati più importanti e potenti (chiedere a Donald Trump, Angela Merkel e Boris Johnson per chiarimenti). Però il punto - lo spiega bene su queste colonne Giorgio La Malfa - è che l’emergenza non può essere infinita, altrimenti diventa normalità. Un paradosso. Con il Covid bisogna convivere: e la ricetta non è aumentare a dismisura le unità di terapia intensiva. Ma più a fondo c’è un’altra, formidabile questione che atterrisce perché se si radica costringerà il mondo intero a ristrutturarsi. Quel che rende questo virus diverso da tutti gli altri è che attacca il pilastro delle società avanzate, il cemento dello stare insieme, il bastione del confronto umano: la socialità. Non possiamo più stare gli uni accanto agli altri come prima, dobbiamo distanziarci per essere sani. Tutto il contrario di quel che è successo nel corso dell’evoluzione, dai primati all’homo sapiens: tale anche perché capace di stare in compagnia dei suoi simili imprigionando fino a farlo scomparire l’impulso a sbarazzarsi del competitor. Tra “uniti” e “si vince” bisogna mettere un metro, forse due che è meglio. Ma se il senso di comunità, prima fisico poi inevitabilmente psicologico, cambia cosa dobbiamo mettere al suo posto? Se ai nostri ragazzi diciamo che la movida è un pericolo, quale alternativa gli forniamo: stare a casa da soli o a gruppetti? Se ai lavoratori spieghiamo che lo smart working è la panacea, con cosa sostituiamo il senso unitario del lavoro e come organizziamo la difesa dei diritti, specie dei più deboli che magari restano soli non perché non hanno il pc ma perché trasformati nei nuovi paria della contagiosità? Se agli studenti e ai professori diciamo che distanziati è meglio, come si svilupperà l’identificazione gruppale e l'esperienza della trasmissione della conoscenza? Qualche bello spirito potrebbe dire che poiché il mood è quello del rinvio, rinviamo a settembre o dopo pure l’individuazione di modelli alternativi di socialità. Ma forse non ce lo possiamo permettere.