C'è un adesso. Che è fatto di una lunghissima campagna elettorale cominciata prima dell'estate e che si concluderà a ridosso di Natale. Un adesso dove le scosse telluriche dello scontro tra schieramenti (e all'interno dei medesimi) sono trattenute da una sottilissima crosta di strumentalità: più ci si avvicina il 4 dicembre e più quella crosta si rivelerà argine insufficiente. Ma soprattutto c'è un dopo. Quando si saranno chiuse le urne e si saprà chi ha vinto tra il Sì e il No. Benchè tenuto - in verità con non poca fatica - sottotraccia, è il tema vero del confronto e tutta l'attenzione (anche polemica) è concentrata sulla seconda eventualità: che a prevalere siano i contrari alla riforma. Che succederà in quel caso? Se Matteo Renzi dovesse lasciare palazzo Chigi quale governo dovrebbe sostituirlo? Con quale premier e sorretto da quale maggioranza? E, prioritariamente: per varare quale legge elettorale? Dentro questa cornice (ma solo in questa: l'individuazione dell'elettorato "vincente" a destra fatta da Renzi è altra cosa), il capo del governo ha visto giusto: il pallino è nelle mani del centrodestra. Considerato infatti che i Cinquestelle resteranno fuori della partita - anche se non è affatto detto che sia questa la loro vera intenzione, mentre è sicuro che ci sarà chi lavorerà alacremente per lasciarli ai margini - l'asse della governabilità si sposterà nella mani di Berlusconi. A suo tempo, cioè solo poche settimane fa, l'ex Cav si pronunciò a favore di un esecutivo di larghe intese con il Pd per reimpostare il meccanismo elettorale dopo la cancellazione dell'Italicum. Poi però le cose sono cambiate. Ora, infatti, il fondatore di Forza Italia riceve nel suo studio privato milanese Salvini e la Meloni per rilanciare il No referendario, mentre dalle colonne del Corriere della Sera anche Stefano Parisi ufficializza la sua contrarietà all'alleanza di governo con il Pd.Tutto a posto? Non proprio. In realtà nel centrodestra corrono parallele (almeno) due linee politiche. Quella ufficiale, che ripropone l'intesa a tre FI-Lega-Fdi e vede Parisi come un poco gradito compagno di viaggio: colpiscono, sotto questo aspetto, i toni irridenti con i quali l'establishment ufficiale forzista si rivolge a lui. Basta sentire, per fare un esempio, il capogruppo alla Camera Renato Brunetta che dagli studi della Gruber riguardo mister Chili prima dice: «Parisi chi? » e poi spiega che il manager è leader di un movimento che si chiama "Per", «e al quale faccio auguri, ma che con FI non c'entra nulla». La seconda linea politica, invece, è incarnata appunto da Parisi che gode dell'avallo carsico di Berlusconi, e che mira a riunire un non meglio precisato mondo moderato. Parisi replica con garbo alle malmostosità del fuoco amico sottolineando che il Signore di Arcore «è consapevole che serve una fase di rigenerazione per recuperare i voti persi». A quella programmatica, ci pensa lui. Per quel che riguarda gli uomini, tocca a Silvio. Che però si guarda bene dal procedere.Insomma si tratta di parallele fortemente dissimili da quelle morotee, che non paiono cioè destinate a produrre alcuna convergenza.Una contraddizione corposa e vistosa, che la rincorsa verso le urne referendarie e l'assiepamento sotto le bandiere del No contribuisce, allo stato, a sfumare. Ma - e si torna al quesito politico principale - dopo? Si tratta di un terreno scivoloso e infatti Parisi ci spattina sopra alla grande. Senza larghe intese, se vince il No a suo avviso par di capire si dovrebbe allestire un esecutivo dal quale il centrodestra resterebbe fuori e che dovrebbe varare una riforma elettorale senza ballottaggio, con un premio di maggioranza fortemente ridotto. In sostanza la sconfessione totale dell'impianto riformista renziano. Può il Pd sostenere un esecutivo simile? E senza - o addirittura contro - il maggior partito, che maggioranza si può allestire? «Qualunque sia l'esito del referendum ci sarà un centrodestra pronto a governare», spiega Parisi: ma più che altro sembra una chimera.Il problema è che lo spattinamento di Parisi, sia politico che programmatico, è lo stesso di Silvio. E allora, in virtù della rilevanza dell'ex premier, la chimera diventa miraggio.Si vedrà. Del resto non è che sul fronte opposto le cose stiano meglio. Il conflitto interno al Pd è senza tregua e minaccia di diventare senza prigionieri. Renzi va a caccia dei voti della destra assicurando che tutta la sinistra è con lui. Le perplessità sono autorizzate: non solo a causa dell'opposizione interna, quanto del fatto che figure significative del mondo di sinistra e centrosinistra stentano a prendere posizione per il Sì, alimentando dubbi e, nel giglio magico, una moltitudine di sospetti. Per esempio Romano Prodi ha spiegato ai quattro venti che non dirà cosa intende votare. Poi però ad un convegno a Bologna sul Mezzogiorno stronca "l'industria 4.0", iniziativa fiore all'occhiello del ministro Calenda e, quel che più conta, di Renzi stesso: «Serve l'industria 1.0, non 4.0. Nella mia testa serve un quadro politico che che dica cosa fare, ma il Mezzogiorno non ha più partiti politici. Il riferimento sono solo le persone: Emiliano, De Luca e de Magistris. Possono loro fare sistema? ». Domanda retorica. Mentre non sono per nulla retoriche le considerazioni di un altro personaggio significativo, il giurista ex componente ella Consulta, Sabino Cassese: «La questione meridionale era nazionale negli anni '50, poi è diventata materia delle Regioni, nei confronti delle quali abbiamo avuto troppa fiducia». Esattamente il contrario di quel che pensa il presidente del Consiglio, che alla Regioni ha affidato il nuovo Senato. Guardacaso l'oggetto principale della revisione costituzionale che si vota all'inizio di dicembre.