Carl Gustav Jung in una bella intervista televisiva rilasciata poco prima della morte, e reperibile agevolmente su You Tube, risponde a una domanda dell’interlocutore parlando della scoperta del suo essere una persona cosciente, separato dai suoi famigliari e situa questo ricordo in un’epoca, all’incirca, collocabile fra i suoi sette- otto anni d’età.

Jung faceva risalire quest’acquisizione improvvisa in un giorno di primavera mentre stava tornando da scuola. Subito dopo questo ricordo mi sembra che accenni anche ai suoi rapporti con i suoi coetanei e racconti come avesse meritato il rispetto da parte di costoro una volta che si era difeso dall’aggressione di un gruppetto di ragazzi atterrandone uno e utilizzando il corpo del malcapitato come se fosse una clava da fare roteare intorno a sé. Tutto ciò accadeva verso i dodici anni e Jung riconosceva, a dire il vero, che era sempre stato un ragazzo corpulento e fisicamente aitante. «Non so come – disse – da allora nessuno più mi ha importunato».

Racconto questi episodi perché mi hanno fatto tornare in mente, per analogia, quando mi sia capitato di rendermi conto di avere una coscienza mia, separata da quella di mia madre e dei miei famigliari. Anch’io dovevo avere all’incirca sette anni quando la signora Lilia Valsecchi, mia maestra delle elementari, mi indicò ai miei compagni di classe dicendo, presso a poco così: «Guardate, bambini, Giorgio; è il più piccolo di tutti, ma ha la coscienza!». Rimasi esterrefatto. Cosa mai era quella coscienza che mi si riconosceva e di cui io, paradossalmente, non avevo la minima consapevolezza?

Mi arrovellai per qualche mese quando, inaspettata, si realizzò un’altra circostanza, sempre in classe. La maestra aveva sequestrato ad Emilio Spreafico, un compagno di classe un po’ mesto e dotato di una eterna “candela” che gli scendeva dalle narici, una gran matassa di stringhe di liquirizia.

Io ero ghiottissimo di liquirizia e mi parve una beffa della sorte che la maestra m’incaricasse di andare in bagno e di buttare nel water tutto quel ben di Dio.

Andai in bagno e mi trovai a confrontarmi, di fronte alla tazza del gabinetto, con un quesito tremendo: “Buttare tutto via e buona notte, oppure appropriarmi di una parte del malloppo, così morbido e invitante”?

Il dubbio era paralizzante e tutte le volte che allungavo la mano verso la tazza, nello stesso tempo avvertivo una forza uguale e contraria che me la faceva ritrarre.

Che fare? Non potevo restare tanto a lungo fuori dalla classe e intanto il tempo, inesorabilmente, passava. Alla fine staccai un minuscolo pezzetto di una stringa di liquirizia e me lo misi in bocca, poi buttai tutto il resto nel buco del gabinetto ( ora ricordo che era un gabinetto “alla turca”) e tirai la catenella dell’acqua. Dopo un’incertezza drammatica, il malloppo scomparve nel vortice ed io avvertii una curiosa sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco.

Mentre tornavo in classe, fui colpito da un’improvvisa illuminazione. Ecco cosa era quella benedetta “coscienza”! Era il dubbio riguardante l’appropriarmi della liquirizia, oppure no, era, forse, proprio quella spiacevole sensazione epigastrica che mi aveva assalito a tradimento. Tornai in classe mogio mogio con l’imbarazzante sensazione di essere nudo e con la certezza che i miei compagni sapessero perfettamente che mi ero inghiottito un minuscolo pezzetto di liquirizia. Qualche tempo dopo questo episodio, mi accadde di ritornare da scuola mentre pioveva. Dovete sapere che Lecco, la mia città natale, ebbe per molti anni il massimo indice di piovosità fra tutte le città italiane.

Quel giorno stava piovendo poco ed io ero quasi arrivato a casa e, quindi, decisi di non aprire l’ombrello anche perché un pensiero bizzarro mi si era formato nella mente: «Se piove poco, non devo aprire l’ombrello, così, a casa, evito l’incomodo di portarlo tutto bagnato… e poi la mamma, vedendomi bagnato come un pulcino certamente mi consolerà e mi coccolerà».

La pioggia mi aveva, intanto, inzuppato i capelli, ma quando entrai in cucina mia madre si arrabbiò perché ero tutto bagnato e, scioccamente, avevo evitato di aprire l’ombrello.

In poco tempo ho così scoperto alcuni dei misteriosi percorsi che la coscienza intreccia nell’animo, unendosi alla rappresentazione del nostro essere agenti nel mondo e in relazione affettiva con gli altri.