Nel film Blade runner di Ridley Scott, tratto dal romanzo di Philip Dick «Ma gli androidi sognano pecore elettriche?», i replicanti sono copie degli esseri umani, che vengono impegnati nelle colonie fuori dalla terra. E’ forza lavoro, sfruttata e non pagata.

Sono i nuovi schiavi che si ribellano e che uccidono il padre che li ha creati. Ma per quanto siano copie, i replicanti restano umani. Hanno sentimenti simili ai nostri, nutrono passioni, hanno ricordi. Amano e odiano come gli uomini e le donne. La storia è ambientata proprio nel 2019 a Los Angeles e immagina un futuro che per noi è una realtà.

Ma per quanto Philip Dick prima, Ridley Scott poi immaginassero un mondo distopico, in cui l’essere umano potesse essere replicato, restano ancorati a una visione profondamente antropocentrica del mondo. Tutto cambia, l’umano si fonde con la macchina, ma i replicanti non posso che avere le nostre sembianze, parlare come noi, vivere e morire come noi. In Blade runner il futuro fa paura, è incerto, la città e noir, e il sole non si vede quasi mai, ma resta una certezza: la possibilità di conservare un grumo di quella verità che abbiamo ereditato da secoli e secoli di storia.

Oggi che il calendario segna il 2019, il futuro appare allo stesso tempo meno disastroso e più preoccupante. I replicanti siamo noi. Gli sviluppi dell’Intelligenza artificiale permettono di modificare le immagini senza che sia possibile scovare quale sia la rappresentazione originale. Stiamo parlando dei “deepfake”, la tecnica usata per sovrapporre e modificare le immagini, che abbiamo visto recentemente applicata a un filmato di Matteo Renzi. Il video trasmesso dal programma Striscia la notizia era molto rudimentale ed era facilmente comprensibile che si trattasse di un fake. Ma con il tempo sarà sempre più difficile distinguere il vero dal falso, l’originale dalla copia alterata, l’umano dal totalmente artificiale. E’ un salto di qualità preoccupante in un mondo in cui la comunicazione è diventata l’elemento centrale del fare politica e dell’agire collettivo. Le ultime campagne elettorali sono state vinte grazie all’utilizzo di tecniche di propaganda che hanno avvelenato il web: notizie false spacciate per vere, campagne di odio orchestrate contro i nemici politici, spie informatiche al soldo del più forte.

A questo quadro già devastante ora si aggiunge il deepfake. Sarà possibile creare dei video che mettano in difficoltà un nostro avversario in qualsiasi campo, far credere che un leader abbia pronunciato un discorso o una promessa, far credere che un avvenimento sia accaduto nonostante sia inventato di sana pianta.

Le difficoltà che abbiamo nello smascherare una fakenews si potenziano a dismisura.

Le immagini, molto più della parola scritta, godono di uno “statuto di realtà” che le rende vere a prescindere. Siamo intrappolati nella caverna platonica: da una parte e dall’altra siamo circondati da immagini ma non sappiamo, e forse non possiamo, distinguere quelle vere e quelle finte, la copia e l’originale, l’umano e il non umano. Il filosofo che riesce a liberarsi dalle catene non saprà come fare per aiutare gli altri prigionieri a raggiungere la conoscenza, a distinguere il bene dal male.

Stiamo un po’ esagerando? Forse. Non dobbiamo essere catastrofisti, ma neanche far finta di nulla. Prima che queste nuove tecniche prendano il sopravvento, dobbiamo ragionare su come attrezzarci per non soccombere e sprofondare nella finzione.

I nostri attrezzi saranno millenni di storia e di cultura, sapendo però che molti di questi attrezzi oggi sono spuntati per una parte importante dell’umanità e che dovremmo fronteggiare sempre più persone che credono in ciò che vedono senza attivare il senso critico. Arriviamo all’appuntamento con i deepfake dopo aver combinato un bel po’ di guai.

Non basta prendersela con chi oggi diffonde false notizie o fa campagne di odio sul web. Né con chi creando profili falsi condiziona “il sentiment” della rete che poi a sua volta condiziona la politica e chi prende le decisioni più importanti. Questa è la punta dell’iceberg.

Siamo immersi in un sistema informatico e di comunicazione che considera normale montare a proprio piacimento pezzi di realtà per orientare il senso comune e creare consenso. Lo si fa in tv, lo fanno i giornali. Non stiamo parlando solo di algoritmi, ma del nostro cervello, cioè della nostra volontà.

Il deepfake è una conseguenza non solo della nuove conoscenza dell’intelligenza artificiale ma prima ancora delle scelte che compie l’intelligenza umana, cioè noi.