Le indagini dei pubblici ministeri nei confronti di amministratori e politici fanno notizia soprattutto alla vigilia delle elezioni e fanno gridare al complotto giudiziario. Un complotto che, ovviamente, non esiste nei termini ipotizzati, oppure esiste se valutiamo le situazioni da un particolare punto di vista, come è avvenuto nei giorni alla vigilia delle elezioni europee, quando si è gridato al ritorno di “Tangentopoli”.

Il rapporto tra politica e giustizia è da sempre critico e anomalo perché si dovrebbe reggere su un equilibrio tra i poteri presenti nella Costituzione e su una distinzione tra i gli stessi che è fortemente contestata.

Questo rapporto infatti risulta alterato soprattutto da quando un legislatore scellerato nel lontano 1992 ha abolito l’immunità del parlamentare e quindi ha agevolato l’ invadenza del sistema giudiziario. L’invadenza in un campo diverso da quello strettamente giudiziario si è verificata con le indagini di “mani pulite” negli anni 90 che ha fatto apparire i magistrati come garanti della moralità e della legalità. Ho ripetuto mille volte che i magistrati non garantiscono la legalità, non sono a presidio della “questione morale”, ma “reprimono l’illegalità” e per questo adempiono a una funzione istituzionale. Se la magistratura dovesse “garantire la legalità”, e far prevalere il bene sul male avrebbe una funzione etica molto anomala e pericolosa per il nostro ordinamento.

Ritengo molto importante che il presidente dell’Anm. Pasquale Grasso, per primo dopo tanti anni, abbia riconosciuto che Tangentopoli “non è stata una cosa buona e c’è stato un reflusso”. Quel “reflusso” ha determinato uno sconcerto nel Paese e una resa del legislatore che ha lasciato il Parlamento e in definitiva le istituzioni senza garanzie.

La perdita dell’immunità da parte del Parlamento ha alterato l’equilibrio istituzionale e ha intaccato il prestigio delle istituzioni. Al di là del significato formale della modifica dell’art. 68 della Costituzione, si è determinata una cultura e potremmo dire un costume, un orientamento della stessa giurisprudenza che ha attribuito un valore diverso al potere giudiziario.

Ma vediamo perché si è determinata questa situazione.

L’azione del pubblico ministero sembra a tutti prevalente e anticipa il giudizio, soprattutto per la anomalia dell’attuale processo penale che dovrebbe essere un processo accusatorio con la parità delle “parti”: da una parte l’accusa dall’altra la difesa in contraddittorio tra loro. Al contrario l’azione del pubblico ministero, che non è giudice, è universalmente considerata eguale a quella di chi deve giudicare. Il giudice “decide”, la Costituzione gli attribuisce questo compito e la decisione in un sistema democratico è “la verità processuale”, salvo i gravami consentiti dalla legge.

Le ragioni che impongono la distinzione tra pm e giudice sono molte, fondamentali e di sistema. Le abbiamo esaminate da anni anche in sede scientifica, ma qui è importante precisare una cosa particolare e di ordine pratico.

Se il pubblico ministero avesse riconosciuta la funzione che gli è propria di accusa e non avesse le guarentigie che sono proprie del giudice, la sua attività verrebbe considerata come quella di una parte che, per gli indizi raccolti, ritiene di incolpare qualcuno salvo a farli diventare prova. Il processo accusatorio richiede la parità delle parti di fronte al giudice terzo, dal momento che né il pm né l’avvocato sono terzi. Nel 1989 modificammo il processo penale per realizzare questo risultato!

Quindi, al di là delle ragioni giuridiche e ripeto di sistema, la distinzione tra pm e giudice farebbe perdere la sacralità della “comunicazione giudiziaria” che ha valore e significato di “garanzia”, perché fatta da una parte che ha il dovere di “accusare” al primo indizio di un qualunque fatto e ha il dovere di avvisare il presunto indagato. La confusione dei ruoli porta a ritenere che sia un giudice e non una “parte”, cioè il pm, a prendere l’iniziativa per una indagine giudiziaria e la stampa, anche la più accreditata, attribuisce l’iniziativa sempre al giudice e quindi dà informazioni sbagliate e indica sempre il giudice come autore delle iniziative.

Tutte le polemiche assurde e pretestuose sul caso Siri sarebbero superate se si rendesse il processo penale coerente con il sistema accusatorio. La semplice “comunicazione” fatta da un pubblico ministero cioè, ripeto, da una parte non avrebbe alcun significato proprio perché non fatta da un giudice. La magistratura anziché auspicare la riforma del pubblico ministero la ostacola duramente da sempre, perché teme che il pm diventi subordinato al potere esecutivo. Un timore che abbiamo tutti, ma che non avrà ragione di esserci, se si disciplina adeguatamente la sua funzione con un Consiglio Superiore di riferimento, con una necessaria autonomia e con indicazioni date dal Parlamento sulle priorità nell’esercizio dell’azione penale.

Dunque il “complotto” non esiste ma è considerato tale, per una anomalia che altera il processo penale e lo rende ibrido: né accusatorio né inquisitorio.

I tempi sono maturi per fare questo tipo di riforma che eviterebbe le infinite patologie del processo e eviterebbe un rapporto errato nei confronti della opinione pubblica. Auspichiamo questa riforma dagli anni 80 e spero che ormai le patologie e le distorsioni del processo possano convincere anche il potere giudiziario ( che non è più “ordine” ma “potere“) della sua bontà. Alla classe politica la responsabilità di credere in questa riforma e non immaginare che la riforma della giustizia sia l’aumento delle pene come panacea per qualunque male e per qualunque avvenimento delittuoso. Si sono fatti già tanti danni nell’ultimo periodo inasprendo le pene le quali invece debbono essere proporzionate per essere giuste e per essere funzionali a recupero del condannato.

Quando un magistrato di livello come Gerardo Colombo dice in una intervista di qualche giorno fa che “ha perso sulla corruzione“dimostra la alterazione della funzione del pm che dovrebbe lottare per far vincere il bene sul male quindi attribuendogli, una funzione etica pericolosa per il potere giudiziario.

Colombo aggiunge che “nella competizione tra corruzione e leggi ha vinto la corruzione”. Voglio correggere in maniera più istituzionale la sua frase: la legge vince sempre sia quando condanna sia quando ha assolve. E a Colombo dico in maniera particolare: con una vecchia stima, che per “mani pulite”, come lui sa, vi sono state molte tante assoluzioni… tardive!

In un periodo in cui si parla di populismo come degenerazione del popolo, del rapporto sano tra il cittadino e le istituzioni, bisognerebbe evitare “il populismo giudiziario che può essere devastante” come un pubblico ministero Edmondo Bruti Liberati, non più magistrato, ha riconosciuto.