Non sono tanto i due mesi trascorsi in carcere il problema, spiega Nicolò Figà-Talamanca, segretario dell'ong “No Peace Without Justice”, indagato per associazione criminale, corruzione e riciclaggio nell’affaire Qatargate. Il vero disastro dell’inchiesta più incerta della storia europea sono i danni catastrofici fatti nel lavoro a tutela dei diritti umani. Che di fatto è stato bloccato, nonostante in mano degli inquirenti non ci sia, a quanto pare, proprio nulla.

Qual è stata la sua esperienza con l’autorità giudiziaria belga?

Per essere interrogato devi essere privato della libertà. Ovvero in condizioni di soggezione, di intimidazione fisica e di debolezza nei confronti dell’interlocutore. Un inquirente bravo, un professionista, può anche sfruttare l’asimmetria che si crea in quella situazione per ottenere informazioni utili. Anziché procedere sulla base di indizi, sono andati a cercare elementi per provare una teoria preconcetta che, secondo le carte che ho visto sui giornali, è stata preconfezionata da altri, cioè dai servizi di sicurezza. Non si sa quali, se quelli belgi o stranieri. I servizi non hanno gli stessi interessi, né le stesse regole, della polizia giudiziaria e dei magistrati. Abbiamo assistito ad un circo mediatico: i media erano evidentemente stati già allertati degli arresti, c’era un hashtag pronto prima dell’arresto e il giorno in cui sono stato fermato, dopo aver perquisito casa mia senza trovare una lira, su Le Soir c’erano dettagli che nemmeno io conoscevo.

Cosa è accaduto il giorno dell’arresto?

Una volta alla stazione di polizia pensavo che sarei stato solo interrogato, invece mi hanno fatto aspettare un sacco di tempo. Mi hanno messo in una cella di sicurezza e poi soltanto il giorno dopo ho visto brevissimamente il giudice istruttore che mi ha dichiarato in arresto. Nel frattempo, fuori, i media avevano già fatto esplodere il caso in maniera teatrale, con stralci appositamente scelti da chi li ha fatti circolare.

Ma senza prove, su che base è stato arrestato?

Sulla base di nulla. E il 3 febbraio sono stato rilasciato senza condizioni con la stessa arbitrarietà con la quale ero stato arrestato. Se le facessi vedere il mandato d’arresto capirebbe. Si parla di altri, ma nessun fatto, nessuna condotta che giustificasse il mio arresto. Tutto ciò che c’è fa parte del mio lavoro.

Ad esempio i suoi contatti con gli europarlamentari e la sua attività di advocacy?

Esattamente. Facevo campagne. Se mi viene a chiedere come mai su una risoluzione inviavo emendamenti a diversi parlamentari rispondo che questo è il mio lavoro, in termini di rapporti con l’Ue: fare campagna politica per i diritti umani e spingere su alcune cose. Insomma, far fare le cose agli altri.

Ed è legale?

Non solo è legale, perfino la Commissione europea finanzia proprio questo tipo di attività di advocacy sui diritti umani in Paesi terzi. Fare campagne per i diritti umani vuol dire andare a convincere i decision makers a fare questa o quella scelta rispetto a legislazioni in atto, politiche da verificare eccetera.

Tra tutte queste proposte e questi emendamenti, c’è qualcosa che riguarda Qatar e Marocco?

No.

Il discorso di Eva Kaili nel caso della famosa risoluzione sui mondiali in Qatar, ad esempio, è stato preso come prova del suo coinvolgimento. Cosa ne pensa?

Era un discorso che condividevo. Ma vado anche oltre: in Qatar esistono tante persone, prima di tutto la Commissione nazionale dei diritti umani, che è riconosciuta come indipendente dall’Onu, che è riuscita ad usare i mondiali per fare dei cambiamenti. Noi da fuori abbiamo due scelte: o diciamo che non vale alcun cambiamento e dunque si rinforza chi vuol fare passi indietro, oppure prendiamo atto dei problemi ma anche delle cose positive e diciamo che quella è la direzione giusta. E quella è una posizione che riflette la conoscenza delle dinamiche interne del Paese. In Qatar, quelli che si opponevano di più alla rimozione della Kafala (un’istituzione giuridica utilizzata per monitorare i lavoratori stranieri, ndr) e ai diritti dei lavoratori paradossalmente non erano le ditte qatarine, ma i contractors europei. I progressi durano in funzione del ritorno politico o d’immagine. E il rischio è che vengano cancellati quando si spengono i riflettori.

Sull’Europa ci sono interessi di Paesi terzi?

La mia ong ha lavorato con un’associazione che, nel 2021, ha effettuato un’indagine - dal titolo “Undue influence” - molto dettagliata sulle influenze straniere degli Emirati, che hanno un record atroce in fatto di diritti umani, ma un’immagine molto positiva. Ed è questa ricerca che mi viene contestata, perché smaschera il lavoro di influenza straniera sulle istituzioni europee. Ma invece di corruzione da parte degli Emirati si parla di corruzione da parte del Qatar. Cosa c’entri questo non lo so. Come non so cosa c’entri il fatto che la Alp Services (un’agenzia investigativa privata) abbia stipulato un contratto con gli Emirati in cui c’è una taglia di centinaia di migliaia di euro sulla mia testa e su quella di Marco Perduca (ex senatore dei Radicali, ndr) per abbassarmi il credit rating, farmi chiudere i conti correnti, crearmi controversie sui social media. Mancava solo l’arresto, che poi ironicamente è arrivato. Che rapporti hanno con i servizi segreti? Non lo so. Quando lavori coi diritti umani ti aspetti cose del genere. Ma non in Belgio.

Ha subito pressioni durante l’interrogatorio?

Sono stato messo in una cella di sicurezza e interrogato a notte fonda, fino alle 4 del mattino. Non mi è stato mai contestato nulla di specifico, né in quell’occasione né dopo. Per me brancolavano nel buio, completamente. E credo che sia così ancora oggi. Chi avrà un giorno occasione di leggere quegli interrogatori vedrà che quelle domande non hanno né capo né coda.

Le hanno chiesto di fare nomi?

Da quello che ho capito del sistema, potrebbero essere l’unica cosa che interessava. Secondo me sarebbe andato bene qualsiasi nome. Senza che ci fossero atti, azioni particolari. Se tu gli dai un nome, cosa ha fatto te lo dicono loro. L’unica prova che vale, nella loro testa, la prova suprema, è la confessione.

E come si fa a parlare di Stato di diritto in Belgio?

Sicuramente non è il livello che ci si aspetta in un Paese europeo. Non è il livello della cultura giuridica italiana. Però è stato così anche in Italia, tanti anni fa.

Come sono stati i due mesi trascorsi in carcere?

Sono stato nel carcere di Saint Gilles, il peggiore del Belgio e tra i peggiori d’Europa, durante lo sciopero delle guardie carcerarie. E quindi, per tutto un periodo, non si usciva dalla cella, mai. Mia moglie veniva tutti i giorni in orario di visita, per portarmi intimo e calzini, ma non riuscivamo ad incontrarci. Per dieci giorni non ho avuto un cambio, non avevo carta igienica. Una situazione indegna di un Paese civile. Sono condizioni inumane e degradanti, al di sotto di qualsiasi standard di decenza.

Al netto della sua posizione, questa presunta associazione a delinquere per favorire gli interessi di Qatar e Marocco esiste?

Non lo so. Abbiamo visto le foto di valigie piene di soldi. Il che vuol dire che qualcuno ha pagato qualcun altro in contanti. Potrebbe essere un tentativo di evasione fiscale. A me questa sembra la tesi più plausibile.

E negli atti parlamentari non c’è nulla di sospetto?

In “Undue influence” ricostruiamo il voting patterns: chi ha votato su cosa, ad esempio, contro il proprio gruppo. Da lì emergono un po’ di elementi. E non ci sono i protagonisti di questa vicenda, ma tutt’altri. Non escludo che il Qatargate sia una reazione a quel lavoro.

La sua ong in che situazione si trova, ora?

All’associazione, che lavora sulle violazioni sistematiche dei diritti dell’uomo, sono stati sequestrati 740mila euro senza nessuna giustificazione. Dicendo che potrebbero essere prodotto di attività illegali. Ma quei soldi provengono dalla Svizzera, dalla Norvegia, dall’Open society foundation e dalla Commissione Ue. Né dal Qatar né dal Marocco. Al momento del sequestro avevamo tre grandi progetti: uno sui crimini commessi in maniera sistematica sulle popolazioni indigene in Amazzonia, uno sul campo in Libia e uno in Afghanistan. Abbiamo dovuto interrompere tutto subito dopo il mio arresto. E questo è già un grave danno. Non solo, il sequestro implica che quei soldi sono fermi. Dove li troviamo 740mila euro in questa situazione? Quello che è accaduto è completamente sproporzionato rispetto agli elementi in possesso degli inquirenti. Bastava andare a vedere da dove arrivavano quei soldi.

Sopravviverete?

Sicuramente ci batteremo fino all'ultimo. E abbiamo ricevuto tanto sostegno da partners e amici in tutto il mondo, che ci conoscono da 30 anni. Certo, a fine anno c’è il bilancio da chiudere. E c'è il rischio ancora di chiudere in passivo, che non sarebbe ideale. Tutto questo per cosa? Per niente. O forse proprio perché il lavoro sui diritti umani dà fastidio, evidentemente, agli interessi di chi vuole silenziare qualsiasi voce di dissenso in alcuni Paesi.