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Non gliene viene in mente neanche uno. Dai divanetti della Camera Enrico Costa alza gli occhi al cielo e resta in silenzio, quando gli chiediamo chi dei suoi colleghi in Parlamento possa dirsi un sincero garantista. D’altronde lo scettro lo detiene lui, il deputato di Azione che garantista lo è “senza ma”, come recita il profilo X (ex Twitter) da cui il politico agita la sua frusta. «Ci faccia caso, quando c’è un arresto o un’inchiesta tutti partono con la dichiarazione: “sono garantista, ma... questo o quell’altro l’ha fatta grossa”. Ecco, il “garantista ma” è un garantista peloso». Enrico Costa invece della giustizia ha un’idea precisa, e non l’ha mai tradita nel corso della sua carriera politica: da giovane parlamentare che presidiava la Commissione giustizia, capogruppo Gaetano Pecorella, «quando a pochi altri importava»; poi da relatore del Lodo Alfano e del legittimo impedimento con Silvio Berlusconi, tanto per citare alcune delle leggi più contestate; e via così, da viceministro del governo Renzi, fino all’ultimo salto da Forza Italia al partito di Calenda.
Insomma, si direbbe che di raddrizzare la giustizia il deputato ne abbia fatto una missione. Quasi un’ossessione? «Ma no, ogni volta che svolgo il mio mandato parlamentare lo interpreto come fosse l’ultimo. È una modalità che ti consente di dire quello che pensi, a differenza dei tanti che vivono la politica come unico orizzonte». La cultura garantista Costa l’ha scoperta da Tangentopoli in poi, ma l’ha raffinata in Parlamento con due «maestri»: Pecorella, appunto, e Niccolò Ghedini. Ma il segreto è tramandato: si tratta di specializzarsi. «Molto meglio sapere tutto di poco, che poco di tutto», come gli ha insegnato papà Raffaele, che parlamentare, avvocato e liberale della destra liberale lo è stato prima di lui.
Da lì, dalle strade di Mondovì in provincia di Cuneo, bisogna partire per capire chi è Enrico Costa. Assiduo frequentatore delle nostre pagine, di cui questa volta vogliamo conoscere la storia. Uomo politico sempre pronto a tirar fuori la toga di avvocato dal cassetto, «abbonato agli scioperi» di chi lo contesta, nemico giurato dei giornalisti per detta dei giornalisti, che non gli perdonano la cosiddetta “legge bavaglio” (ovvero l’emendamento che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare fino al processo). «Non ce l'ho con i giornalisti, è una legge “dignità”, non “bavaglio”. Mi posso definire un “custode” di alcuni principi costituzionali che sono stati un po’ trascurati nel corso degli anni. Come il principio della presunzione di innocenza e il diritto di difesa». Credente nì, laico appena mette piede in Aula, liberale a tutto tondo, ma «proibizionista sulle droghe» (poi ci torniamo).
Il nostro deputato garantista la politica ce l’ha nel sangue. L’ha respirata da sempre. «Quando mio padre è stato eletto la prima volta aveva 6 anni. Mi portava alle riunioni, alle cerimonie, ai congressi del partito liberale, anche se non capivo niente». Poi ha cominciato a farsi un’idea, a seguire le orme del papà, sottosegretario alla Giustizia nel ‘79 e sempre attento alle carceri, con un approccio finalizzato all’educazione e al recupero del detenuto. «Tant’è vero che le Br lo condannarono a morte». Di aneddoti su quegli anni ce ne sono tanti, ma Costa ne ricorda due in particolare, che gli hanno segnato la strada.
Il primo porta il nome di Enzo Tortora, che dopo l’arresto scrisse a mano una lettera-appello all’amico Raffaele, e questi se la incorniciò nell’ufficio. Costa aveva 14 anni ma se la ricorda bene. Rovista tra gli appunti ma ce l’ha a portata di mano, come un talismano. Così la legge: è datata 30 agosto 1983. “Caro Raffaele, oggi so cose che mai avrei sospettato. Ma ciò che più mi indigna, a parte la stregonesca medievale iniquità del rito, è questa giustizia in ferie, come una rivendita di gelati. È questa spazzatura umana, tale è la considerazione del cittadino, per certi giudici lasciata a fermentare nei bidoni di ferro delle carceri pieni di disperati, di non interrogati, di sventurati e di come me innocenti. Fate qualcosa, ve ne prego”.
Ebbene, Costa figlio quella supplica l’ha presa alla lettera: non se ne sta mai con le mani in mano. Scrive le leggi di suo pugno, perché così è più facile ottenere il risultato sperato. «Nel corso degli anni ho imparato a trasformare un’idea in emendamento. Cosa che purtroppo la stragrande maggioranza dei parlamentari non fa, perché non li sanno scrivere e neanche leggere, per cui si affidano agli uffici legislativi dei gruppi, che però non “sentono” la materia». Tanti politici lavorano così, ragiona Costa, invece di rimboccarsi le maniche si limitano a trovare un nemico. «Io invece cerco di fare delle proposte e di portarle avanti e di proporle alla maggioranza». Talvolta andando a segno.
Il secondo aneddoto, dicevamo, invece ha la firma di Marco Pannella, «zio Marco». Costa lo ha conosciuto a fine anni ‘70, durante una delle tante gite a Roma insieme al papà. «Un giorno mi portò alla buvette: ricordo ancora il frigorifero dei gelati. Mi insegnò a fare le scivolate sui marmi nei corridoi di Montecitorio, con i mocassini. Ogni volta che chiamava mio padre, dalle cabine telefoniche della Camera, chiedeva di parlare con me. E a 16 anni mi regalò la tesserà dei Radicali senza dirlo a nessuno». Quando l’adesione “forzata” fu annunciata a Mondovì, dove Raffaele Costa era candidato in campo opposto, suscitò anche qualche clamore. Ma oggi non sorprende che tra i colleghi a lui più vicini Costa menzioni Riccardo Magi, con il quale condivide visione e metodo su quasi tutto, «tranne che sulle droghe. Sono proibizionista proprio perché sono liberale» (rieccoci).
«Il fine vita? Ognuno decida per sé, i partiti non sono delle caserme su questi temi». Ma sulla giustizia la barra va tenuta dritta, seguendo un mantra preciso: «Lo Stato deve garantire che se una persona entra nell’ingranaggio giudiziario e ne esce da innocente, deve tornare la stessa persona, non una persona ammaccata perché infangata e con le cicatrici». Costa lo ricorda ai politici che «mettono in mano ai magistrati la sorte delle persone già dalla fase dell’indagine, usando la giustizia come una clava nei confronti dell’avversario». Lo ricorda ai magistrati che mettono becco su tutte le norme, anche quando non riguardano l’organizzazione dell’ordinamento giudiziario. E un po’ lo ricorda anche al guardasigilli. «Il Nordio editorialista e che decide mi piace molto. Il Nordio che delega alla struttura ministeriale e fa l’opposto di quello che ha dichiarato un po’ meno». Riecco il garantista, dunque. Ma ci sarà qualcos’altro che l’appassiona? «Giocare a tennis, anche se ormai accompagno mio figlio più che praticarlo. Da quando c’è Sinner “tennista” è diventato un complimento...».