Mentre si fa sempre più delicata l’attività diplomatica per provare a trovare una soluzione di pace equa in Ucraina, l’Europa si sta giocando gran parte del proprio peso proprio in queste caotiche giornate, seguite al vertice di Ferragosto tra Trump e Putin. La premier italiana Giorgia Meloni, dopo aver preso parte alla call dei “Volenterosi” è volata a Washington per il vertice insieme agli altri capi di Stato europei. Abbiamo fatto il punto con Paolo Pombeni, professore emerito in Storia dei sistemi politici europei dell’Università di Bologna e direttore della rivista Il Mulino.

Che idea si è fatto del ruolo che la premier italiana Giorgia Meloni si è ritagliata in questa difficile congiuntura internazionale?

Meloni, almeno fino a questo momento, sta facendo tutto quello che ci si può aspettare dalla presidente del Consiglio di una nazione che fa parte dell’Europa e dell’Alleanza atlantica. Non è facile tenere insieme queste due appartenenze, ma fino ad oggi c’è riuscita. Dovrà poi capirsi cosa avverrebbe nel caso in cui questi due elementi dovessero arrivare a collidere.

Ritiene che possa succedere?

C’è da augurarsi che si vada verso una soluzione diversa e positiva e cioè che Putin, da un lato, si renda disponibile ad una soluzione razionale che non vada nella direzione del suo vero obiettivo, cioè la riduzione dell’Ucraina a stato vassallo, e che Trump, al contempo, si convinca che assecondare Mosca su questo punto sarebbe pregiudizievole per gli Usa. Su questo percorso credo che si potrebbe trovare una soluzione, ma non sono condizioni facili da immaginare. Per Putin avere una semplice acquisizione territoriale non sarebbe un risultato all’altezza dell’impegno economico profuso e della sua ambizione neo-imperiale. Trump, invece, è più difficilmente interpretabile e comunque ha un establishment interno in grado di esprimere posizioni diverse rispetto alla linea presidenziale.

L’Europa, invece, si rimette in gioco con il nuovo vertice o giudica indebolito il suo ruolo dopo il vertice in Alaska?

L’Europa si è già rimessa in gioco. Non si può certo pensare che per miracolo si passi da posizioni frammentate dei diversi Stati a un nuovo stato federale compatto. Si è visto chiaramente, però, che tutti sono consapevoli che l’Europa deve esserci e giocare un ruolo, perché altrimenti viene distrutto il futuro di tutte le nazioni che compongono l’Europa e non soltanto di una. Sta maturando questo sentimento e si è sviluppato anche in Gran Bretagna che, lo voglia o non lo voglia, è un pezzo d’Europa. Si tratta di una novità assoluta. Sta rientrando in gioco anche la Germania con un ruolo più consapevole e meno convinta di essere un’eccezione anche per la forza economica che sta parzialmente perdendo. Anche l’Italia si è accorta che non può più fare giri di valzer scegliendosi di volta in volta il partner.

Il ruolo di Meloni smarcata dagli altri leader europei con la funzione di “ponte” con gli Usa è venuto meno dunque?

Nessuno butta via un rapporto privilegiato con gli Usa, non lo faranno neanche Macron e gli altri. Stare con l’Europa non vuol dire bruciare i ponti con gli Usa. Meloni ha un’importante qualità: impara da quel che succede e ha capito che per andare avanti in questa sua funzione di ponte deve restare saldamente in Europa. Anche se deve fare i conti con la coalizione di governo che non è certo solidissima nell’assumersi impegni politico-militari che la situazione attuale richiede. È una vecchia tradizione italiana, di destra e sinistra, fare le anime belle che non accettano logiche perverse.

Il governo Meloni però rimane stabile, tra i più longevi in Italia e tra i più in equilibrio in Europa. Le tensioni con gli alleati e con Salvini possono indebolirlo?

Meloni ha un vantaggio indiscutibile: può contare di fatto su un’opposizione di centrosinistra molto debole e il rimanere al governo la porta ad una situazione di forza rispetto agli alleati minori, così come avveniva con la Dc in altre epoche.

L’unità sulla politica estera è un problema comune anche alla coalizione di centrosinistra. Pd e M5S, Schlein e Conte riuscirebbero a fare sintesi in un ipotetico governo?

Al momento non si vede in che modo Pd e M5S possano effettivamente riuscire a vincere le elezioni e arrivare al governo. Né emerge una figura abbastanza forte da rimettere in riga gli scolari, per così dire, più fantasiosi.

Da settembre in avanti si susseguiranno una serie di elezioni regionali per le quali le coalizioni sono già in campagna elettorale. Che conseguenze si aspetta per gli equilibri delle alleanze?

Il nostro Paese, si sa, è molto amante delle sfide calcistiche e vuol sapere chi vince e chi perde. Naturalmente, a seconda della coalizione che avrà più successo o meno successo, ci potrebbe essere qualche ricaduta dall’esito della competizione elettorale. Poi c’è anche da considerare che non tutte le regioni che votano hanno lo stesso peso. Tuttavia, sarà da valutare con attenzione se davvero quel meccanismo che abbiamo visto emergere recentemente si rafforzerà. Mi riferisco alla nascita di forme di potere e di aggregazione locali in grado di creare consenso politico, sottraendosi all’imperio dei caminetti nazionali. Sta avvenendo su tutti i territori e se dovesse proseguire si tratterebbe di un meccanismo che, in tempi magari non brevissimi, sarà in grado di cambiare l’equilibrio nazionale. Arriveranno nuove classi dirigente in grado di scuotere un albero che al momento è molto nazional liberistico.