Anni di appelli a depenalizzare, poi arriva una riforma come la “Cartabia”, che interviene chirurgicamente sulla perseguibilità d’ufficio di alcuni reati, e si scatena un moto d’indignazione collettiva.

Del paradosso discutiamo con Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’università di Milano.

Un “pendolo” dei giudizi quanto meno paradossale, professore.

Certamente c’è da registrare, quanto meno, un atteggiamento che mostra una certa ritrosia a fare seriamente i conti con ciò che è indifendibile e insostenibile: la patologica lentezza dei procedimenti penali, che rappresenta un unicum in Europa. Ricordo solo che, secondo dati del Consiglio d’Europa, la durata media dell’appello penale è, in Italia, dieci volte superiore alla media del continente. Siamo dei malati cronici e gravi: bisogna prenderne coscienza per accettare la necessità di cure. Anche di quelle che possono apparire terapie d’urto. Dati alla mano, il sistema non riesce a gestire annualmente il milione e mezzo di procedimenti penali di cui è gravato.

L’estensione del regime di procedibilità a querela ad alcuni reati, statisticamente ricorrenti nei ruoli d’udienza, come nel caso di furto e lesioni lievi, anche stradali, è una sola tra le tante misure concordate dal governo Draghi con la Commissione europea, nell’ambito del Pnrr, che vanno nella direzione di decongestionare il processo penale. Quanto alle lesioni stradali, l’intervento risponde addirittura a un monito della Corte costituzionale. È una cura per un male di cui soffriamo ed è certamente un minus rispetto alla depenalizzazione: chi lamenta l’impunità per la mancata presentazione di una querela, per un reato che rimane tale, come può, coerentemente, invocare la depenalizzazione, che cancella il reato?

A lamentarsi sono anche diversi pm. Possibile che dietro alcune critiche vi sia anche il timore di perdere il controllo sull’esercizio dell’azione penale?

Non penso. Le critiche si sono concentrate su due soli reati, tra la dozzina di quelli oggetto della riforma: furto e sequestro di persona semplice. Sono reati comuni e, nel caso del furto, vecchi come il mondo. Probabilmente, per pur nobili ragioni di prevenzione e difesa sociale, si fatica ad accettare come possibile la rinuncia a punire quei reati, perché la vittima non si trova o non presenta una querela. Però si dimentica che gran parte dei furti, fino a ieri procedibili d’ufficio, sono bagatellari, come molti di quelli nei supermercati. E il sequestro di persona, punito nel minimo con solo sei mesi di reclusione, può riguardare limitazioni della libertà personale assai limitate nel tempo. Sa qual è il reato per il quale più si applica la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto? Il furto: 31.000 provvedimenti iscritti nel casellario giudiziale tra il 2015 e il 2021. E sa che, per lo più, quella causa di non punibilità viene riconosciuta non durante le indagini, ma in primo grado o in appello, dopo che si sono celebrati lungamente uno o due gradi di giudizio? Non è meglio, piuttosto che celebrare 31.000 processi per furti di merendine o simili, rinunciare a farlo quando manca la querela, cioè l’interesse del privato, vuoi perché risarcito, vuoi semplicemente perché disinteressato? Le procure possono così concentrarsi sui procedimenti per reati ben più gravi. Già ora lo fanno, d’altra parte: quanti cittadini dopo aver subito furti, anche in appartamento, non hanno più avuto notizia delle sorti della loro denuncia?

Sarebbe necessario, almeno per una fase transitoria, vincolare gli uffici affinché segnalino alle vittime la necessità della querela?

La disciplina transitoria, inserita su proposta del ministro Nordio in sede di conversione del decreto Rave, è a mio parere ragionevole. Il differimento dell’entrata in vigore della riforma, di oltre due mesi, unito al termine di tre mesi per presentare la querela, dà alle persone offese buone garanzie di conoscibilità della novità normativa. Si è scelto, modificando la riforma Cartabia, di limitare la ricerca delle persone offese, da parte degli uffici giudiziari, ai soli fini delle misure cautelari. Anche questa è una scelta ragionevole, proprio a fronte della prolungata vacatio legis, e sgrava gli uffici da dispendiosi adempimenti.

Possibile che i critici ritengano così irrinunciabile il “simulacro illusorio” della giustizia onnipresente da essere disposti a vedere sacrificata l’effettiva efficienza del sistema?

Pare sia effettivamente così’. La sensibilità, anche mediatica, che si ha per il momento iniziale del processo, per le indagini e le misure cautelari, mette in ombra la fase finale, cioè l’esito. La vera e preoccupante “falcidia dei processi”, evocata in questi giorni da magistrati con funzioni direttive, non è e non sarà rappresentata dalla mancata presentazione delle querele, per mancata conoscenza, dimenticanza, disinteresse o, come in molti casi avviene, per remissione dopo il risarcimento del danno: è quella determinata dalla prescrizione del reato, che a Napoli ha interessato, solo in appello, nel 2021, un procedimento ogni tre e, a Roma, uno ogni due. Per non dire poi del fatto che la maggior parte dei reati, compresi quelli procedibili a querela, si prescrive nel corso delle indagini. Questo è il vero allarme, determinato anche e proprio dal numero ingestibile dei procedimenti.

Nel caso del sequestro di persona può esserci il rischio di un eccessivo alleggerimento della risposta repressiva da parte dello Stato?

Si è sentito dire anche questo, ma in realtà la procedibilità a querela non implica necessariamente un alleggerimento della risposta repressiva. Basti pensare che sono procedibili a querela reati come violenza sessuale, stalking e revenge porn.

Si obietta che il sequestro di persona può denotare una tale pericolosità dell’autore da richiedere una sanzione anche al di là della volontà manifestata dalla vittima, in modo da scongiurare il rischio che quello stesso autore possa commettere altri reati.

È facile rispondere che il diritto penale punisce il fatto, l’offesa recata con il reato, e non la pericolosità manifestata con la sua commissione.

Sul piano della percezione sociale, può pesare l’impossibilità di fermare gli autori dei furti, considerato che quelli per i quali c’è l’improcedibilità d’ufficio raramente avvengono in presenza della vittima?

Ha centrato un punto importante. L’estensione della procedibilità a querela alla gran parte dei furti suggerisce forse di ripensare la regola secondo cui, nei reati procedibili a querela, l’arresto in flagranza può eseguirsi solo se la querela viene presentata, anche oralmente, all’ufficiale presente sul luogo. Non è ragionevole pretendere che sulla scena del reato sia sempre presente anche la persona offesa o che, comunque, debba essere reperita immediatamente. Questo avviene, normalmente, rispetto alla violenza sessuale, non anche al furto: se mi rubano l’auto sotto casa non è ragionevole pretendere, per arrestare il ladro, che anche io sia sotto casa o raggiungibile a qualsiasi ora. Si potrebbe allora valutare un correttivo: per non sacrificare le esigenze cautelari, e consentire l’arresto, si potrebbe richiedere la querela solo per l’eventuale applicazione di una misura cautelare, dopo la convalida. Senza mettere in discussione la procedibilità a querela, insomma, basterebbe consentire l’arresto in flagranza e richiedere che la querela venga presentata entro 48 ore. Il governo Meloni non lo ha fatto dopo il rinvio della riforma, ma potrebbe farlo senz’altro ora. La legge delega Cartabia, non a caso, prevede decreti correttivi da adottarsi entro due anni, in base di quanto emerge dall’applicazione.

Ultimo caso che ha suscitato forti reazioni: la pena extracarceraria prevista per una violenza sessuale. Come ci si arriva?

Facciamo chiarezza. Nel caso che lei cita è stata ridotta la pena, per una violenza sessuale, in applicazione del concordato sui motivi d’appello. La riforma Cartabia ha in effetti rimosso le irragionevoli preclusioni dell’art. 599- bis c. p. p., consentendone l’applicazione anche ai reati previsti dall’art. 4 bis. Non si tratta di un rito premiale, come il patteggiamento: presuppone un accertamento pieno del fatto e della colpevolezza. Il punto è quindi che non si fanno sconti di pena: il giudice applica la pena giusta, prevista dalla legge, e la riduzione, rispetto a quella inflitta in primo grado, dipende dal fatto che il giudice ha ritenuto fondati i motivi di appello. Così il giudizio si chiude prima nell’interesse di tutti. E non è vero che, se la pena irrogata è inferiore a 4 anni, per la violenza sessuale, si possono applicare pene sostitutive, come i domiciliari. La riforma prevede che le pene sostitutive non si possono applicare nei confronti dell’imputato per reati previsti dall’art. 4 bis.