Professore Avvocato Vittorio Manes, Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Bologna, a distanza di 18 anni intorno al caso di Garlasco si riaccendono i riflettori. Che idea si è fatto di tutto questo clamore mediatico? Siamo dinanzi ad una pura e semplice informazione e cronaca giudiziaria, o al voyeurismo giudiziario?

È frequente che un fatto di cronaca nera, e un delitto così efferato, susciti l’attenzione dei media e il pubblico interesse: i giornalisti hanno il dovere di informare e i cittadini il diritto di essere informati. Occorre però sempre evitare che la cronaca giudiziaria si trasformi in un “processo parallelo”, celebrato non nell’aula giudiziaria ma nell’aula mediatica. E soprattutto evitare che la giustizia subisca una sorta di spettacolarizzazione, che trasforma il processo, o la sua parodia mediatica, in puro intrattenimento, o in quello che viene usualmente descritto come “il circo mediatico-giudiziario”. E qui mi pare che siamo al cospetto di una “ennesima stagione di una serie crime di successo”, come ha scritto Massimo Gramellini sul Corriere della sera, costruita su presunti colpi di scena investigativi che finiscono per essere presentati dalla narrazione mediatica come nuove verità, anche se sono tutti da verificare, nella loro densità probatoria. Ma sono solo pseudo-verità, peraltro poco rispettose della famiglia della vittima e dei vecchi e nuovi protagonisti, uno dei quali, peraltro, ha subito una condanna gravosissima.

Ormai siamo dinanzi ad una inchiesta minuto per minuto. Un parlamentare ha anche interrogato il ministro Nordio per capire se tutti questi atti apparsi sulla stampa siano coperti da segreto. A prescindere da quella che sarà la risposta del Ministro, non ci vorrebbe più contegno, un maggiore self restraint da parte di tutti quelli che hanno le carte in mano?

Certamente occorrerebbe molta cautela, equilibrio, anche e soprattutto nell’informazione giudiziaria. Perseguire il fine di soddisfare – doverosamente – il pubblico interesse non significa dovere o potere soddisfare tutto ciò che può essere di un qualche interesse per lettori e spettatori, spesso dando sfogo a forme di curiosità morbosa e comunque a scapito della correttezza e precisione delle informazioni divulgate. Gli effetti distorsivi di una informazione non corretta rischiano di condizionare anche gli attori del processo reale, di fuorviare gli stessi inquirenti e di contaminare lo stesso corretto sviluppo delle indagini.

Dove finisce il diritto di cronaca e dove inizia quello di un indagato a non essere descritto come colpevole già in fase di indagine?

L’equilibrio è molto delicato, e senza dubbio la priva “vittima eccellente” di una informazione non corretta è la garanzia fondamentale della presunzione di innocenza. Il sensazionalismo con il quale vengono diffuse certe notizie e l’iperbole cripto-colpevolista che contrassegna di regola la narrazione mediatica rischiano di deformare la realtà che si racconta, sacrificando l’obiettività ad esigenze volte ad accrescere – grazie ad una forte carica ansiogena ed emotigena - gli indici di ascolto e l’audience. L’individuazione di un possibile colpevole prima del giudizio – o di un qualche “capro espiatorio” - è indubbiamente funzionale a rispondere a questa carica emotigena, somministrando ansiogeno ed ansiolitico allo stesso tempo. Ma questa “giustizia senza processo” è carica di effetti negativi, rischia anche di vulnerare, anche solo in modo subliminale, l’imparzialità del giudice.

Infatti, se si celebrerà un processo quali potrebbero essere le conseguenze sulla presunta “verginità cognitiva” del giudice?

Le conseguenze sono spesso sottovalutate, ma a mio avviso sono sempre significative, talvolta determinanti. La divulgazione di notizie che dovrebbero essere coperte da segreto istruttorio mette a disposizione del giudice atti o elementi che non dovrebbero essere portati a sua conoscenza, e che potrebbe conoscere solo durante il contraddittorio dibattimentale, cioè nel confronto tra accusa e difesa. Così ne resta appunto inquinata la sua “verginità cognitiva”, perché nel suo bagaglio di conoscenze è già entrato un materiale apocrifo che non dovrebbe entrarvi. Ma i rischi, come anticipavo, sono soprattutto per la imparzialità del giudice, che di fronte ad una “campagna mediatica” di segno colpevolista può essere condizionato nella scelta, sino a dover dire, con la sentenza, da che parte sta: se sta dalla parte della pubblica opinione, con una sentenza di condanna che ratifica e suggella quella anticipata dai media, ovvero se – assolvendo - sta dalla parte di imputati che l’opinione pubblica considera già colpevoli. E in certi contesti, di fronte ad una massiva campagna mediatica e ad una aspettativa diffusa di condanna, per assolvere ci vuole molto coraggio, o anche solo per riconoscere una circostanza attenuante o magari l’intervenuta prescrizione.

Lei scrisse nel suo libro “Giustizia mediatica” a proposito del processo a mezzo stampa: «quando l'avvocato si presta a questo gioco lo fa però a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve». Questa considerazione sembra descrivere quello che sta accadendo in questi giorni. Concorda?

Cautela ed equilibrio sono richieste a tutti gli attori del processo reale, nelle interlocuzioni – talvolta necessarie e persino inevitabili – con gli organi di informazione. Tanto i pubblici ministeri quanto gli avvocati dovrebbero guardarsi bene dal partecipare, direttamente o indirettamente, a forme di parodia processuale, ed evitare di alimentarle per cercare, magari, occasioni di visibilità. La sede naturale del processo è l’aula giudiziaria, e l’avvocato che dimentica questo finisce per legittimare il processo parallelo, e delegittimare quello istituzionale.

Come si spiega che da parte dell'opinione pubblica, pur priva degli strumenti giuridici adatti ad affrontare un caso così complesso, si crei tutta questa attenzione e il desiderio di trasformarsi in investigatori, criminologi, giudici del popolo?

I gravi accadimenti di rilievo penale, ed in specie le vicende di cronaca nera, scuotono sempre l’opinione pubblica, creano allarme sociale e panico morale, e sono sempre coinvolgenti: in questi casi, più in generale, la narrazione mediatica non è solo engagée o “impegnata”, ma è sempre “impegnante”, coinvolge e protagonizza lettori e spettatori chiamandoli a interrogarsi sulla ancestrale dicotomia tra “bene” e “male”, secondo meccanismi che la psicologia del profondo può spiegare bene. Alcuni reati, poi, suscitano una naturale identificazione sociale con la vittima, e l’inclinazione a condividere il dramma da questa patito con il reato, aumentando il coinvolgimento: e il processo celebrato dai media diventa una sorta di rito di solidarizzazione e socializzazione con la vittima.