«La sentenza Cappato non rappresenta un passo avanti significativo. Pone, invece, una serie di condizioni articolate in modo da rendere di fatto impossibile, o quasi, ottenere il “permesso di morire” nel nostro Paese. E ci sarà da lavorare per superarle o adattarle». Francesco Crisafulli, magistrato della Sezione XVIII del Tribunale di Roma (già Agente del governo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo) parte dall’orientamento della Consulta per analizzare i delicati temi legati al fine vita e ai diritti che ne conseguono.

Dottor Crisafulli, la sentenza Cappato” ha aperto qualche anno fa un varco. C’è però ancora da lavorare?

C’è molto da lavorare. Mi sia consentito dire, con il massimo rispetto per la Corte costituzionale e per l’estensore della sentenza, per il quale nutro immensa stima e profonda amicizia, che in questa vicenda non ho mai condiviso il suo modo di procedere e le sue conclusioni. Sin dai tempi della tanto discussa ordinanza di rinvio, mi sono affannato a dire, l’ho detto in più di un convegno, che, al di là dei tecnicismi sui quali i costituzionalisti si sono a lungo interrogati, la Corte aveva già, sin da allora, risolto la questione, pur rimettendo formalmente ad altra udienza, a distanza di un anno, la pronuncia della sentenza vera e propria, e questo per lasciare al Parlamento il tempo di fare il suo mestiere: fare una legge sul suicidio assistito. Basterebbe, per convincersene, notare che in un punto della motivazione in diritto, e precisamente al punto 4, la Corte dice espressamente di non poter condividere, «nella sua assolutezza», la tesi della Corte di assise d Milano che le aveva sottoposto la questione. Se questa non è un’anticipazione di giudizio. Ma c’è molto di più.

A cosa si riferisce?

La Corte afferma, come tante volte ha fatto, che la questione di cui è investita, per la sua complessità e per la varietà delle scelte che potrebbero legittimamente farsi nel disciplinare la materia, non può essere decisa da lei, ma appartiene alla sfera di attribuzioni del legislatore, chiamato a fare quelle scelte. In questi casi, però, la Corte dichiara la questione inammissibile. Nel caso Cappato, invece, si è riservata il potere di decidere sulla questione, ma ha lasciato al Parlamento un po’ di tempo per correre ai ripari con una legge. Cosa che, naturalmente, il Parlamento si è ben guardato dal fare. Non solo. La Corte, dopo aver affermato nettamente che la disposizione che proibisce, sanzionandolo penalmente, l’aiuto al suicidio non è contraria alla Costituzione, ammette che possono esservi situazioni limite in cui, invece, potrebbe essere consentito aiutare qualcuno a togliersi la vita. Ma individua quattro condizioni affinché ciò possa avvenire.

Quali?

La persona deve essere affetta da una patologia irreversibile, deve patire sofferenze fisiche o psicologiche per lei intollerabili, dev’essere tenuta in vita da mezzi di sostegno vitale e dev’essere in grado di assumere decisioni libere ed informate. Quando, poi, è uscita la sentenza n. 242 del 2019, abbiamo ritrovato esattamente le stesse quattro condizioni, la terza delle quali è davvero paradossale: perché per accedere al suicidio assistito bisogna trovarsi in una condizione (la dipendenza da sostegno vitale) che già di per sé consentirebbe al paziente di imporre al medico di sospendere il trattamento e questo è ormai un dato acquisito, sia nella giurisprudenza, sia nella stessa legge. Cioè dovrebbe trovarsi in una condizione in cui il suicidio assistito è sostanzialmente inutile, serve solo ad accelerare e rendere meno doloroso il commiato. Quindi oggi abbiamo le stesse stringenti condizioni, fortemente limitative, già enunciate un anno prima, con l’aggravante che la Corte, dimentica del suo self restraint nell’invadere il campo del legislatore, si spinge fino a tratteggiare le modalità di accertamento della sussistenza di quelle condizioni e ad individuare i soggetti abilitati a tale accertamento. Perciò, per rispondere alla sua domanda iniziale, no, la sentenza non rappresenta un passo avanti significativo.

Essa, invece, pone una serie di condizioni articolate in modo da rendere di fatto impossibile, o quasi, ottenere il “permesso di morire” nel nostro Paese. E ci sarà da lavorare per superarle o adattarle.

Il legislatore a questo punto non può più sottrarsi dall’intervenire?

Direi proprio di no. Anzi: la Corte costituzionale gli ha fornito, su un piatto d’argento, una disciplina sufficientemente dettagliata da risolvere una serie di problemi che il Parlamento avrebbe dovuto affrontare, e al tempo stesso sufficientemente vaga da consentire di frapporre un’infinita serie di ostacoli burocratici alla richiesta di morte di un paziente; ed anche sufficientemente restrittiva da rendere molto difficile ottenere un aiuto al suicidio. Perché mai, allora, il Parlamento dovrebbe scomodarsi ad affrontare un tema così delicato e complesso, così divisivo, così legato a orientamenti personali del tutto meta-giuridici, di natura religiosa, etica, sociale, ed anche in qualche modo sentimentale, ma anche a archetipi profondamente radicati nella nostra cultura e nella nostra psiche, tutti difficilmente conciliabili con soluzioni di compromesso?

Un tema molto delicato è quello della dipendenza da sostegno vitale. I giuristi ne discutono molto...

Il requisito della dipendenza da sostegno vitale è quasi la sconfessione di quel poco di utile a fare un passo avanti che nella sentenza si poteva trovare, cercando molto, molto bene. In buona sostanza, l’aiuto al suicidio depenalizzato finisce col confondersi nel pacifico ed indiscusso diritto del paziente di rifiutare o di interrompere un trattamento sanitario. Cioè, si risolve nella mera possibilità di somministrare al paziente, nel momento in cui si “stacca la spina” dei farmaci che lo aiutino a non soffrire della morte, a volte lenta e comunque di per sé dolorosa, pensiamo al morire soffocati, o al morire di fame e di sete, ma che, per allargare un attimo lo sguardo, non allevia affatto il dolore delle persone care al paziente nel vederlo agonizzare, sia pur in uno stato di incoscienza, per un tempo più o meno lungo.

La “sentenza Cappato” ha creato un diritto senza un obbligo. Un aspetto non di poco conto? Si è tracciata una strada poco agevole?

Si è tracciata una strada per nulla agevole. Come giustamente lei dice, si è creato un diritto cui non corrisponde un obbligo: cioè un non-diritto. Diciamo che, in teoria, l’obbligo ci sarebbe pure: le strutture pubbliche sarebbero tenute, così come sono tenute ad attrezzarsi per praticare gli aborti, a predisporre i mezzi necessari per raccogliere le richieste di suicidio assistito, esaminarle, e, quando possibile, cioè molto di rado, accoglierle e dar loro soddisfazione. Ma lo fanno? Lo faranno? Senza una legge, come si stabilisce qual è lo specialista abilitato a valutare la sussistenza dei requisiti? Qual è il “reparto suicidi” dell’ospedale? Senza contare che, come per l’aborto, è fatto salvo il diritto all’obiezione di coscienza. Una cosa che ho sempre trovato un’anomalia del sistema.