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Una legge può sempre essere cambiata, compresa quella che prevede un controllo concorrente della Corte dei Conti sull’attuazione del Pnrr. Ma ciò può avvenire a patto che tale modifica non sia un modo per “punire” e minare l’indipendenza di un organo ausiliario (così definito dalla Costituzione) qual è appunto la Corte dei Conti, con il suo controllo sugli atti del governo, sulla gestione del Bilancio e le scelte finanziarie, e la sua giurisdizione in materia di contabilità pubblica. A dirlo al Dubbio è Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, secondo il quale la più generale tensione fra politica e toghe è tutt’altro che sopita. Ed è proprio nel tentativo di non alzare il livello del conflitto che si annidano le ragioni della lentezza con la quale la tanto annunciata riforma della giustizia sta vedendo la luce.
Presidente, ritiene opportuna la decisione del governo di intervenire con un emendamento a un decreto per limitare i poteri di controllo concorrente della Corte dei Conti?
Il legislatore ha tutti i diritti di cambiare una legge, cioè di introdurre o eliminare un controllo attraverso quella legge. È lodevole il tentativo di semplificare e di velocizzare, naturalmente entro certi limiti. Non va bene, però, quando lo strumento del cambiamento viene esercitato in relazione a specifiche modalità con cui si realizza in concreto quel controllo. L’obiettivo polemico non è allora il controllo in sé, ma il suo esito, che non piace, e che induce pertanto a modificare la norma. Nel caso specifico, si tratta di una forma di controllo, stabilita per legge, che affianca quella già costituzionalmente prevista per la Corte dei Conti, il controllo preventivo di legittimità degli atti e il controllo successivo della gestione di bilancio, e che può essere ovviamente rimossa con una legge successiva. Occorre, però, che quest’ultima non appaia collegabile direttamente o indirettamente al modo con cui il controllo viene esercitato in un caso specifico, perché altrimenti rischia di diventare un modo per condizionare il controllo stesso e offendere l’indipendenza, prevista costituzionalmente, della Corte dei Conti.
In questa caso sembra evidente che le considerazioni dei magistrati contabili circa l’inefficienza nella fase di programmazione, i ritardi e le criticità organizzative non siano state gradite dal governo.
Evidentemente i risultati non hanno soddisfatto qualcuno. Ma modificare una legge in base al modo in cui essa viene applicata è un discorso da fare con estrema cautela, per evitare di trasformare lo stesso in un intervento sull’indipendenza della Corte. Non ho gli elementi per giudicare se questo controllo sia invasivo o meno nei termini stigmatizzati da chi ne chiede il cambiamento, non credo comunque che questo rientri in quel “Galateo istituzionale” di cui ho parlato altrove, definendo poco elegante l’idea di cambiare le regole durante la partita. Non si può legare la valutazione critica a un discorso specifico di merito del singolo controllo esercitato anziché ad una inopportunità di quel controllo in generale. Abbiamo già detto che la Costituzione prevede un controllo successivo, ma bisogna ricordare che esso interviene quando è già tardi, quando l’eventuale irregolarità è già stata compiuta e il danno si è verificato.
C’è anche un’altra questione: l’emendamento modificativo è inserito nel decreto Pubblica amministrazione. È coerente con il contenuto dello stesso?
Bisogna verificare - in sede di convalida parlamentare - se c’è uno spazio di intervento anche sulle competenze di un “organo ausiliario” come la Corte dei Conti. Il Presidente della Repubblica ha ricordato, anche recentemente, che per convertire i decreti la legge di conversione emanata dal Parlamento deve avere carattere di omogeneità con quelli che sono contenuti e obiettivi del decreto legge che si deve convertire. Non si possono introdurre altri temi. E se così non sarà ci sarà spazio di intervento per la Corte costituzionale.
Ritiene che la Corte dei conti, in generale, possa rappresentare un freno per l’azione di governo?
Sì, ma nei modi previsti dalla Costituzione e dalla legge. Lo scopo non è di certo entrare nel merito, ma verificare che non vi siano situazioni di illegittimità, che potrebbero emergere in itinere e che se portate a termine potrebbero provocare dei danni.
È stato istituito un tavolo di confronto tra Corte dei Conti e governo per decidere questa questione. È la strada corretta?
Mi sembra una scelta problematica, perché quando una legge è sbagliata la si rimuove; quando è giusta la si applica; quando è applicata male ci sono gli strumenti di ricorso previsti dall’ordinamento, tra i quali, in caso di conflitto tra organi, la possibilità del ricorso alla Consulta. Quale significato ha un tavolo di trattativa per l’applicazione di una legge? Gli “organi ausiliari” e il governo sono tenuti ad applicare la legge quale è; non a trattare sulle modalità della sua applicazione. La Corte dei Conti non può e non deve fare discussioni di tipo politico.
Questo scontro è sintomo di un rapporto problematico con la magistratura?
Mi pare che il problema dei rapporti tra le due parti non sia mai stato risolto e anzi si continui ad alzare il livello dello scontro. Penso alle polemiche che accompagnano la possibilità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o ai problemi che stanno sorgendo in materia di prescrizione. Ma pare sia emerso un certo orientamento di non rompere il fronte con la magistratura e anche questo lo capisco fino ad un certo punto, in un contesto in cui parrebbe che le posizioni all’interno della maggioranza non siano del tutto omogenee. Ritengo che al ministro precedente vada riconosciuto il merito di aver cercato di contrastare la pretesa di una parte della magistratura di essere lei l’arbitra delle riforme. Vedo, però, che dopo un periodo di incertezza e perplessità, che peraltro ha giustificato reprimende piuttosto severe da parte del Capo dello Stato, il discorso di un maggiore self restraint all’interno della magistratura sia già stato già dimenticato e che si riprendano le vecchie tradizioni dello scontro aperto con la politica. Cosa che non può che nuocere alla giustizia, in un panorama nel quale io temo sia sempre più vicino (se non inevitabile) il rischio di arrivare a una giustizia affidata non solo e non tanto ad un robot ma a un’intelligenza artificiale. Di essa si cominciano a riconoscere da più parti rischi e pericoli. Il problema della magistratura si risolve prima di tutto con una transizione culturale, di tutti.
Senza entrare nel merito, la riforma della giustizia verrà portata a casa?
L’annuncio dell’entrata in vigore di questa riforma promessa viene continuamente differito. Ci sono problemi che non sono facilmente risolvibili, come il dibattito tra prescrizione del reato o improcedibilità del processo; le difficoltà di organizzare un collegio di giudici per l’emanazione di provvedimenti di custodia cautelare; il fatto che per almeno cinque volte si è tentato di delimitare il concetto di abuso d’ufficio, che non può diventare una specie di sacca dove si ripone tutto quello che non è possibile dimostrare come altra forma di reato. Non mi convince il discorso che si possa o si debba mantenere in vita l’abuso d’ufficio per evitare che i magistrati facciano interpretazioni peggiori e più gravi delle norme da applicare ed è difficile mantenere in vita un reato per il quale non sono state sufficienti cinque riforme per renderlo gestibile. Ma per giudicare ci tocca aspettare di vederla, questa riforma.