«Cosa credete, che quando si è strutturata la catena fordista, e si è passati dall’operaio specializzato all’operaio comune di serie, il conflitto di classe non abbia conosciuto un’iniziale stallo? Non c’è da stupirsi se ora sembra difficile immaginare un nuovo conflitto, una nuova capacità di rivendicare, di affermare il valore del lavoro, di veder riconosciuto il lavoro dipendente. Ma attenti a non sottovalutare i segnali. Gli episodi che non ho difficoltà a definire come rivolte. Disaggregate?

Sì. Però contagiose. E non è detto che sia una condizione di così grande svantaggio, se consideriamo la sconfitta da cui si è ripartiti».

Fausto Bertinotti, presidente emerito della Camera, direttore di Alternative per il socialismo, è innanzitutto, per storia personale, un protagonista e un cultore delle lotte per il lavoro. Ed è stato sindacalista prima che politico, intellettuale anche nell’interpretare la leadership (ha portato Rifondazione comunista all’apice del consenso). A lui chiediamo di aiutarci a comprendere le distanze fra le grandi conquiste culminate nello Statuto del 1970 e il panorama di oggi, destrutturato e popolato da una nuova, sfuggente working class globale: quella di chi lavora per le piattaforme.

Presidente Bertinotti, il Parlamento Ue e il Consiglio europeo hanno appena raggiunto un accordo per una direttiva europea che assicuri lo status di lavoratore dipendente a chi, pur diversamente contrattualizzato dalle piattaforme, ha nei fatti un rapporto “da subordinato”. È un passo avanti?

Lo è. Ed è interessante che venga dall’Unione europea. Un sistema evidentemente più credibile e attrezzato della politica nazionale. Si tratta di un buon segnale, da associare ad altri. Mi sembra che ancora non basti: quelle figure dovrebbero essere considerate tutte come dipendenti. Ma certo non si può dire che nulla si muova.

Ma non sembra il frutto maturo di una lotta partecipata. Può darsi sia una risposta autoconservativa del sistema produttivo, che previene tensioni sociali nascoste nel disagio di queste nuove, fragilissime figure di lavoratori. Insomma, un nuovo Statuto dei lavoratori oggi sarebbe impensabile.

Io non mi lascio disarmare dalla lettura ormai consolidata della sociologia apologetica, secondo cui oggi il conflitto di classe, di fronte al progresso tecnologico, sarebbe inagibile. È la narrazione che dal mutamento della struttura produttiva, del rapporto fra tecnologia ed evoluzione del lavoro, fa discendere un combinato disposto in cui sarebbe impossibile il conflitto.

E non è ineluttabilmente così?

Dovremmo assumere che il conflitto di classe sia compatibile solo con il modello fordista, solo in quel santuario del conflitto che è la grande fabbrica.

È un’idea alla quale, di fatto, ci si è tutti rassegnati.

Le dicevo appunto che anche nella fabbrica fordista il conflitto sembrava, all’inizio, impossibile. Fu decisivo l’ingresso di un elemento, l’organizzazione, grazie al quale lo schema mutò. Certo, intendiamoci: la figura centrale dell’operaio si è dissolta in un policentrismo che ne determina la scomposizione. Abbiamo una classe operaia dalla natura molteplice. Ma questo deve suggerisci di indagare i nuovi territori del conflitto, non la loro scomparsa.

“Molteplicità” e “isolate estemporaneità” sembrano separate da un filo sottilissimo.

Evitiamo però anche l’errore della sottovalutazione. Fino a qualche anno fa, chi avrebbe potuto prevedere la lotta di quella categoria evolutissima, ma anche individualistica, costituita dai lavoratori dello spettacolo? E che dire del conflitto spigionatosi nelle major americane dell’auto, cioè proprio lì dove il ciclo fordista-taylorista si era inabissato ed era nato il lavoro tecnologico? Sono entrate in gioco le Unions, alla fine c’è stato l’aumento, per Stellantis, General motors e Ford. Con il suggello del presidente Obama e del suo successore Trump che si presentano ai picchetti ed esprimono la loro solidarietà ai lavoratori.

D’accordo, allora riformuliamo quell’idea di smarrimento: le pur non trascurabili acquisizioni del nostro tempo sembrano arrivare come se le lotte operaie, lo Statuto dei lavoratori, tutte le vecchie conquiste, non ci fossero mai state. È come se avessimo comunque incenerito tutto il patrimonio del passato.

È una sensazione legata al fatto che le nuove conquiste vengono dopo la sconfitta. E con la sconfitta bisogna fare i conti. Il percorso dal 1960 al 2020 non è lineare, anzi: è segnato da una netta discontinuità. Il ciclo delle grandi conquiste arriva a fine anni Settanta, poi attraverso la transizione degli Ottanta si passa alla grande riconquista capitalista. La cogliamo nella vicenda della Fiat come nella destrutturazione vissuta dai lavoratori inglesi e descritta da Ken Loach. Ecco, se ragioniamo così, dobbiamo anche dire che il nuovo conflitto si colloca contro quella restaurazione. Adesso, è chiaro, non siamo di fronte a un’onda. Dobbiamo considerare un nuovo paradigma, che io vedo nell’idea del contagio. Quando penso che non si debba commettere l’errore della sottovalutazione, penso ai conflitti importanti generati nel settore della logistica, pur senza il ruolo delle organizzazioni sindacali tradizionali.

Cosa intende esattamente per contagio?

Lo si può comprendere anche dalla discussione recente sullo sciopero generale, per il quale si è ritenuto più appropriato parlare di sciopero generalizzato. In fondo è avvenuto anche in Francia con la lotta contraria all’aumento dell’età pensionabile: c’è stata una propagazione dello sciopero a tutte le figure del lavoro. Citerei anche l’esempio americano del Black lives matter. La nuova dinamica può essere compresa con un concetto indicato dalle femministe, la intersezionalità, riferita alle nuove, atipiche connessioni che favoriscono, appunto, il contagio.

Resta la sensazione di un’ineluttabile minore forza rispetto alle lotte del passato.

Quando anche in Italia consolidò la figura dell’operaio seriale, diversi protagonisti della cultura e della politica che io pure ho amato moltissimo avvertirono che con la scomparsa del precedente modello di operaio specializzato colto, comunista, socialista o cattolico democratico, scompariva inevitabilmente anche la figura del leader. La moltitudine di immigrati meridionali, spesso analfabeti, che popolava le fabbriche non ce l’avrebbe mai fatta, dicevano. E invece è da lì che vennero il ’68 e il ’69.

Presidente, l’idea di sollecitare la sua così affascinante analisi è nata, nella redazione del Dubbio, dalla suggestione di un nostro collega che ha detto: l’immagine dei ragazzi che lavorano come rider e fanno la pausa pranzo raggruppati nell’angolo di una piazzetta coi loro scooter o le loro bici è la versione contemporanea della foto con gli operai sul grattacielo, quella del 1932 che ritrae undici uomini su una trave sospesa nel vuoto. Condivide l’analogia?

Nella suggestione la trovo molto interessante, pur con le dovute diversità tra cielo e terra, e se associo quegli undici operai al cielo non è solo metaforicamente.

Ecco, ma i ragazzi con la pettorina arancione che condividono il loro veloce pranzo nella pausa del delivery lavorano magari con multinazionali diverse, hanno contratti e relazioni isolate con ciascuna delle loro controparti: come fanno a “unirsi”?

È una difficoltà anche giuridica oggettiva, che va affrontata non solo sul piano contrattuale ma, ovviamente, anche in termini legislativi. Ed ecco che nel discorso ci ricolleghiamo anche al salario minimo, al reddito di cittadinanza, in uno schema di conflitto certamente nuovo, inedito.

La fabbrica fordista era alienante e perciò disgregante, ma era un luogo unico con un datore di lavoro unico.

Certo, oggi l’aggregazione va intesa in tutt’altro modo. Basta evocare un termine, per avere la misura della distanza tra ieri e oggi: unità. L’unità era una costruzione politico sociale, lavoro e politica erano indissolubilmente legati. Il progresso che oggi può dar vita ad aggregazioni vincenti è nelle strade della rivolta, intesa come insorgenza spontanea. A partire da una scintilla, si produce l’incendio. Consideri per esempio la ragione per cui gli incroci sono divenuti luogo di assemblea per i Gilets jaunes: il conflitto è nato dal settore dei trasporti, nei points ti fermavi col tuo mezzo, ed è lì poi che si è costruita ed estesa una grande aggregazione. Sarà così, bisogna considerare l’imprevisto, le singole rivolte e l’evento che le riunifica. Pensate anche all’esempio del Christmas strike inglese: anche lì ha operato un contagio. Quello sciopero di Natale non è stato pianificato e proclamato da un’organizzazione centralista che detta un programma di azione: si è trattato di un moto spontaneo, non guidato.

Dobbiamo sottoporle un ultimo dilemma. Adesso abbiamo una direttiva sui rider in arrivo dall’Ue, ma se si prova a immaginarla come prodromo di un nuovo Statuto dei lavoratori, ci si rende conto che manca la struttura dei grandi partiti e dei sindacati di allora, la loro capacità di assicurare, con l’elaborazione culturale, anche una qualità normativa elevata. Oggi i rider, le loro istanze, non hanno alle spalle quelle grandi e potenti organizzazioni. Come si fa?

È una domanda difficile. Da un lato c’è la miseria della politica: quella è incontaminabile, nella sua pochezza. Certo: come è possibile immaginarsi uno Statuto dei lavoratori senza il controllo di una classe dirigente politica? Lo Statuto dei lavoratori era stato inventato in realtà dieci anni prima da Giuseppe Di Vittorio. Quell’idea era stata custodita e coltivata da un grande Partito comunista di opposizione, finché non le diede corpo un sindacalista e politico socialista come Giacomo Brodolini e non la portò a termine un cattolico democratico come Carlo Donat Cattin.

Ricordarlo un po’ commuove, un po’ fa venire i brividi.

E pensi che alcune componenti ritennero non sufficiente quella riforma, ad esempio per il limite dei 15 dipendenti. Ma certo, era una classe politica che veniva dalle grandi culture del movimento comunista, del socialismo e del cattolicesimo democratico, culture che permeavano il mondo del lavoro e permisero di costruire le riforme. Il pessimismo è comprensibile se si considera che oggi il ceto politico dirigente pare davvero estraneo alla vita delle persone, all’andamento delle organizzazioni sociali. Io credo che la rinascita del conflitto debba essere accompagnata con un rinascimento delle culture del lavoro. Bisognerebbe partire dal primo articolo della Costituzione repubblicana. E capire che l’aggregazione si realizza per una via che non è quella conosciuta. Bisogna saper scorgere i fili d’erba in cui vibra la lotta per una nuova dignità del lavoro.