Di solito, in carcere, la “battitura” è il segno se non di una rivolta, di un fermento, una protesta. Oggi no: nel carcere milanese di San Vittore, quel suono ritmato è una sorta di “inno alla gioia”, alla speranza. E’ il modo scelto dai detenuti per salutare Francesco. Il Papa pranzerà con loro. I detenuti, gli hanno preparato un menu tipicamente meneghino: risotto, cotoletta, patate, panna cotta. Bergoglio rinnova con quei gesti, con quanto certamente dirà toccando le corde giuste dell’umano sentire, un “appello” che è quello di sempre: in perfetta linea con quel «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» che si legge nel Vangelo di Matteo. Ricordate? Appena insediato, Papa Francesco compie due gesti simbolici, ma di indubbio significato: abolisce la pena di morte, formalmente ancora in vigore in Vaticano; introduce il reato di tortura. «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» Bergoglio, il papa del Vangelo

Viene accolto, quel Papa venuto “da quasi la fine del mondo”, al suono di piatti e stoviglie di metallo, battono le posate su pentole e coperchi. Di solito, in carcere, la “battitura” è il segno se non di una rivolta, di un fermento, una protesta, un malcontento che serpeggia. Oggi no: nel carcere milanese di San Vittore, quel suono ritmato è una sorta di “inno alla gioia”, alla speranza. E’ il modo scelto dai detenuti per salutare Papa Francesco. In tarda mattinata, dopo aver visitato le Case Bianche ( un mastodonte di 447 alloggi, un migliaio di inquilini alla periferia est di Milano), il Papa si reca a San Vittore. Il programma prevede una visita in alcune celle, colloqui con i detenuti, pranzo in carcere; gli hanno preparato un menu tipicamente meneghino: risotto, cotoletta, patate, panna cotta.

E’ da credere che lo gradirà molto di più dei pasti al colle- gio di Santa Marta; i detenuti faranno del loro meglio per servire un pranzo gustoso; ma e soprattutto per la “compagnia”, i detenuti. Seguirà qualche minuto di “siesta”, nell’ufficio del cappellano. Un qualcosa di assolutamente inedito: chi organizza la visita fa sapere che per trovare dei

precedenti si deve risalire ai primi secoli della cristianità, quando i Pontefici venivano incarcerati durante le persecuzioni.

Scontato che per far bella figura San Vittore sia stato tirato a lucido, “imbellettato”: muri riverniciati, porte e vetrate strofinate a fondo. In fin dei conti è la prima volta in 138 anni che un pontefice varca la soglia di questo carcere. Sono comunque particolari che a papa Jorge Bergoglio non interessano. Quello che a questo Papa preme è poter incontrare, parlare e ascoltare il maggior numero di carcerati possibile; non è per un caso che a loro dedichi la sosta più lunga – tre ore – della sua giornata ambrosiana. E chissà se ne è consapevole: mentre lui visita il carcere, a Roma si celebrano i sessant’anni dei trattati d’Europa. Un’Europa che non è quella sognata dai padri fondatori: non da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, che vagheggiavano gli Stati Uniti d’Europa; ma neppure l’Europa degli Adenauer, dei Churchill, dei De Gasperi, degli Schuman. Però è ben vero che “Il Manifesto di Ventotene” viene elaborato e scritto al confinio, una prigione a cielo aperto del regime fascista.

Luogo di pena - letterale - e di sofferenza, San Vittore: criminali comuni e tossicodipendenti, malati di epatite e di Aids, il 67 per cento sono stranieri. E, non vanno dimenticati, accanto ai detenuti, quelli che Marco Pannella chiamava i “detenenti”: gli agenti della polizia penitenziaria, e il personale del carcere, i cui ritmi di vita sono massacranti quanto quelli dei reclusi. Verrà accolto con una poesia che i detenuti hanno voluto comporre appositamente per lui: «… l’insolita visita di un amico inatteso… intrecciando i suoi passi ai nostri».

Il Papa rinnova, con questa visita, con quei gesti, con quanto certamente dirà toccando le corde giuste dell’umano sentire, un “appello” che è quello di sempre: in perfetta linea con quel «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» che si legge nel Vangelo di Matteo.

Ricordate? Appena insediato, Papa Francesco compie due gesti simbolici, ma di indubbio significato: abolisce la pena di morte, formalmente ancora in vigore in Vaticano; introduce il reato di tortura. Da sempre invoca l’abolizione dell’ergastolo. Nella giornata dell’Anno Santo dedicata ai detenuti, “accoglie” i marciatori che sotto le bandiere del Partito Radicale chiedono “Giustizia, Amnistia e Libertà”. Anche a lui, oltre che al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si rivolgono oltre ventimila detenuti “assetati di giustizia”, che per due giorni effettuano uno sciopero della fame… Certamente sarà lì a San Pietro, la domenica di Pasqua, ad accogliere i partecipanti di una nuova marcia, sempre per la giustizia, l’amnistia, e a favore degli ultimi più ultimi.

Dice Mohammed, detenuto vai a sapere per quale motivo: «In genere vengo considerato solo un criminale. Potrò mangiare con il Papa. Il suo è un gesto straordinario: viene da noi, gli ultimi fra gli ultimi». Si dirà che un Papa che si comporta da uomo di fede, portatore di speranza e misericordia, è cosa “normale”. Si: è “normale”; ma di questi tempi essere “normali” è cosa straordinaria. E’ la spes contra spem che Pannella invocava fino all’ultimo suo respiro. Una politica degna di tale nome ha di che riflettere, da questi “gesti”, da questi comportamenti; dovrebbe raccogliere questo messaggio, operare di conseguenza. Che non lo faccia, non lo voglia fare, non lo sappia fare, è il segno dei pessimi tempi che ci tocca patire.