Hanno voluto vederlo morto in ceppi, quel corpo ormai da tempo senz’anima e senza vita, e così è stato. Non era certo Bernardo Provenzano quell’essere ridotto a vita vegetativa il cui cuore si è fermato ieri mattina in una cella dell’ospedale San Paolo, quartiere Barona di Milano. Pure quel corpo, che non ragionava e non parlava, non si muoveva e non si nutriva, che quotidianamente veniva ripulito, riposizionato nel letto e nutrito con il sondino naso-gastrico.Quel corpo “viveva” nel regime carcerario dell’articolo 41-bis, quello applicato ai mafiosi più pericolosi.Che sia stato un capomafia tra i più pericolosi, Bernardo Provenzano, quello vero, arrestato dieci anni fa dopo quasi mezzo secolo di latitanza, non c’è dubbio. Insieme al suo socio Totò Riina è stato protagonista della più sanguinosa stagione delle stragi culminata nel 1992 con le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma erano altri tempi e altri personaggi. E paradossalmente chi oggi piangerà (oltre ai familiari) la scomparsa di “quel” Provenzano, saranno gli orfani, magistrati e qualche giornalista, di quella bislacca teoria della “trattativa Stato-mafia” che ormai langue sconfitta dal punto di vista processuale. Erano proprio questi orfani del complotto a cercar di tenere in vita quel corpo in cui vita non albergava più da tempo, nella vana speranza di poterlo trascinare, prima o poi (ma ormai la sua posizione era stata sensatamente stralciata dal processo) a rivelare segreti inconfessabili e quasi certamente inesistenti.Invano nei mesi scorsi la famiglia aveva cercato di far liberare “il corpo” dai ceppi dell’art. 41bis per poterlo trasferire in un reparto di lungodegenza dell’ospedale. Si era trovata davanti un muro, composto di magistrati di un po’ tutte le città italiane che avevano processato Provenzano e dalla stessa cassazione, cui si era aggiunto, un po’ sorprendentemente, lo stesso ministro guardasigilli Orlando, che si era spinto a interpretazioni sociologiche: “Seppur ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora costantemente destinatario di varie missive dal contenuto ermetico. Cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. Era il 24 marzo scorso.Pochi giorni dopo, incuriositi e increduli, siamo andati all’ospedale San Paolo di Milano, dove “il corpo” era custodito in un reparto speciale, sorvegliato all’interno da tre agenti di polizia penitenziaria e all’esterno da 28 poliziotti che si alternavano intorno al perimetro dell’ospedale. Avevamo incontrato il primario del reparto, il professor Rodolfo Casati, colui che meglio conosceva le gravi patologie cui era affetto quel detenuto così speciale. “Provenzano – ci aveva detto – non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento, borbotta qualche suono senza senso”. Che cosa ha esattamente? “Ha avuto ripetute lesioni cerebrali, è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson”. Ma dice qualche parola comprensibile? “A volte pronuncia mmmm, che sembra quasi mamma”.Queste cose il professor Casati le ha scritte in decine di relazioni, spedite nei vari tribunali d’Italia, in cassazione, al ministro. Erano considerazioni tecniche, da medico. Ma forse politicamente scorrette. Quindi inascoltate. Tanto che si è preferito custodire “il corpo” dandogli il rango di pericoloso capomafia al 41bis piuttosto che compiere un normale gesto di umanità e ammettere di aver perso per strada un altro protagonista della vagheggiata “trattativa Stato-mafia”.