«Sospensione. È questa la condizione che sta vivendo l’Italia». Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, fotografa la situazione del nostro Paese con la solita lucidità, dall’alto della saggezza dei suoi 90 anni da poco compiuti.

Professor De Rita, ci spiega questa Italia sospesa?

Siamo sospesi su tutto: dalla pandemia alla guerra. La possibile mancanza di energia ci condiziona e ci tiene sospesi sulle nostre docce, bollette e imprese energivore. Una condizione non nuova per noi. L’italiano ha sempre avuto il gusto di vivere sospeso, mai preciso, corretto, stabilito e codificato. Direi che la sospensione è un elemento quasi naturale della cultura italiana. Del resto diceva Benedetto Croce che l’italiano nasce da un incrocio tra storia e invenzione e da questo ne deriva la sospensione.

Una delle ultime ricerche del Censis, “Un Paese da ricucire”, evidenzia che in Italia dieci milioni di persone vivono tra povertà assoluta e relativa: dati impressionanti.

Ho già detto molte volte che io sui numeri della povertà sono sempre molto sospettoso, perché sono considerati, specialmente da chi commenta, come la prova di un Paese di diseguaglianze, con il conseguente obbligo di ridurle attraverso una politica di riequilibrio. Si tratta di una cosa che, dal piano Vanoni in poi, non ha mai funzionato. Per questi motivi ribadisco: quando sento parlare della povertà mi chiudo in me stesso. Anche sull’annuncio di aver sconfitto la povertà con il reddito di cittadinanza preferisco tacere, e mi sono ripromesso di non parlare più di povertà.

Lo scenario economico, però, non è rassicurante: inflazione ai massimi, recessione prevista dal Fondo monetario internazionale e, sullo sfondo, il rischio default per molte imprese.

Anche su questo cerco sempre di evitare lo scenario prossimo venturo, proprio perché siccome l’italiano è sospeso non si pone mai il problema del domani. Lo affronta quando arriva. Siamo già alle imprese che chiudono, ai licenziamenti, alla grande depressione, alle aziende che non esportano più? Secondo me no, non siamo in questa situazione.

Ci spiega questa sua convinzione?

Basti pensare a quello che è successo con il covid. Si prefigurava la fine delle imprese italiane, invece c’è stato un rialzo fortissimo di tutti gli indicatori economici, con una ripresa delle esportazioni eccezionale. Sono un profondo conoscitore di economia sommersa e in questo confermo che siamo dei campioni. Probabilmente sotto le cifre della povertà, delle imprese in crisi, dei lamenti dei presidenti di confederazione, secondo me, c’è un tessuto economico molto vitale. Aspettiamo, sulla crisi prossima ventura voglio vivere l’autunno che non è ancora cominciato. Prima non mi fascerei la testa.

La crisi investe anche il ceto medio: molti avvocati, secondo l’ultima ricerca Censis per Cassa forense, potrebbero lasciare la professione.

Prima di tutto bisogna rendersi conto che dagli anni 80- 90 a oggi siamo diventati una società di ceto medio. Chi era bracciante è diventato bidello, chi era muratore ha una piccola impresa, chi era artigiano è stilista quasi ricco. Abbiamo vissuto questa grande trasformazione per cui non c’era nessuno in Italia che non fosse ceto medio. Questo allargamento produce un corpaccione che diventa fragile in qualsiasi parte, compresa l’avvocatura. Non dimentichiamo però che durante la pandemia è stata proprio una parte del ceto medio che ha retto, non avendo problemi di stipendio, di sicurezza sul lavoro. Oggi con l’inflazione rischia di pagare un prezzo più alto, ma è una dinamica interna al ceto medio che, ripeto, è il 90 per cento della nostra società.

Quando si parla di scenari le nuove generazioni sono le più “attenzionate”. Facendo una forzatura alla sua ritrosia nelle analisi sul futuro, che prospettive vede per i nostri giovani?

Quando nel 1952 avevo 20 anni, la paura di non farcela, di non trovare una occupazione era molta. Ero un ragazzo sperduto e senza speranza per il futuro, le generazioni successive hanno vissuto esperienze simili, anche loro hanno penato e hanno avuto delle incertezze. I ragazzi di oggi non li ferma nessuno, sono intraprendenti, hanno tanti tavoli sui quali giocarsi il futuro, non sono più legati agli schemi lavorativi dei decenni scorsi: osano. Possono avviare una start- up, andare all’estero, inventarsi lavori con la sfrontatezza propria della gioventù.

A giorni dovrebbe essere varato il governo Meloni. Il primo guidato da una donna e dichiaratamente di destra.

Gli italiani, ormai da molto tempo, hanno una concezione salvifica del governo. Dalla fine della Prima repubblica e della Democrazia cristiana pensiamo che ogni nuovo governo debba portare la salvezza. È stato così per i primi governi Berlusconi, per Monti, per quello giallo- verde e poi è arrivato Draghi. Ma non è così. C’è una situazione difficilissima: dal covid prolungato, all’inflazione alla crisi energetica. Il governo farà quello che potrà, ma non potrà cambiare completamento lo scenario. Se al governo ci fosse la sinistra estrema, invece della Meloni, i problemi dovrebbero essere affrontati con lo stesso realismo, perché il contesto è questo. Il realismo non è un aspetto negativo, il trasformismo, come disse Giulio Bollati, è anche capacità di accettare la trasformazione. Se si resta prigionieri degli schemi destra- sinistra si rischia di non governare mai. E Giorgia Meloni un attimo dopo aver vinto le elezioni ha mutato il proprio atteggiamento di donna di destra.

Le relazioni internazionali, nel passaggio da Mario Draghi a Giorgia Meloni, cambiano?

Draghi era e continuerà a essere un profondo europeista che gioca con e per l’Europa. Lui è un convinto atlantico- europeista. Giorgia Meloni, bene che vada, sarà solo un’atlantica, nel senso che la sua possibilità di essere realista sarà quella di fare alleanze con chi non le piace. Si capisce che non ha la stessa cultura dei tedeschi e, forse, dei francesi, mentre ha già lavorato con i conservatori inglesi e se vuole una polizza di atlantismo la cercherà con gli Stati Uniti. Quella meloniana sarà una politica internazionale più anglo- americana che europeista.

Il successo elettorale di Fratelli d’Italia è coinciso con una pesante sconfitta della sinistra, Pd in testa.

Siamo da tempo prigionieri dell’idea che si voti per orientamento politico: populista, sovranista, di sinistra. Questo fa sì che vinca l’opinione del momento. Perché si vota per opinione e non per aderenza alle ideologie, e l’opinione può cambiare velocemente. Le ultime elezioni sono andate esattamente così, secondo alcuni alimentate indirettamente dai sondaggi, gonfiando l’opinione su certi binari: è una donna, è nuova. La stessa cosa è successa con le elezioni precedenti.

Quindi la politica è destinata a seguire le opinioni.

È così. Un grande o un piccolo partito deve intercettare l’onda, la cosa è più difficile per un grande organizzazione che deve restare coerente con la propria ideologia, come succedeva al Pci di Berlinguer o alla Dc. Oggi, invece, è diverso. L’esempio lampante è Giuseppe Conte, che ha capito il vento che tirava. E avremo una presidente del Consiglio che sull’onda dell’opinione ha avuto un grande successo, ma che ha difficoltà a trovare i ministri chiave.

Lei ha parlato di Giuseppe Conte e della sua bravura a cavalcare l’onda: per alcuni si è trattato di un ritorno al passato e, nel caso del Sud, a una sorta di “laurismo”.

Il “laurismo” era molto più brutale, qui siamo di fronte a un approccio vittimistico più sofisticato. La furbata non è stata solo quella legata al reddito di cittadinanza e ai bonus, è un disegno più complesso tant’è che oggi si lancia sul pacifismo. Conte quindi gioca sulle onde, come i surfisti e deve saperle cambiare, prendere quella giusta, quella del momento.

Enrico Letta e il Pd non sono stati dei bravi surfisti: pagano lo scotto della famosa “fusione a freddo”, come la definì D’Alema?

Un grande partito non ce la può fare a salire sull’onda del momento. Quando è nato il Pd ho scritto, anche in polemica con Michele Salvati, che fondare un partito e chiamarlo “democratico” e nulla più senza l’idea della sua vocazione, della collocazione sociale, di struttura organizzativa e regole del gioco interno, era sostanzialmente un suicidio. Proprio perché sono tra quelli che lo hanno detto alla sua nascita, oggi non sono tra coloro che sostengono che bisogna sciogliere il Pd. Il partito c’è e ogni soggetto sociale deve poter contare sul suo conatus essendi, cioè sulla sua dimensione di volontà di vivere. Alcuni problemi restano quelli di una volta, specialmente in termini di apparato, nel senso che non ha un centro studi, non ha un comitato centrale, una segreteria allargata. Ha degli incaricati di settore, ma manca l’apparato che possa rappresentare un approdo solido per le centinaia di ragazzi che fanno surf. Dal ’ 92 in poi abbiamo avuto tanti surfisti, da Berlusconi in poi, e il Pd è nato senza un’idea di negare il surfismo e di vivere una dimensione che vada oltre la moda.

E il voto di quel ceto medio va dove lo porta in vento?

Sì. Abbiamo detto che il 90 per cento degli italiani è ceto medio e quindi non mi meraviglio che l’operaio di Torino o la casalinga di Bari possano votare Meloni. La politica non può che essere interclassista.

I surfisti Renzi e Calenda sono abbastanza bravi: ma esiste un approdo per il Terzo Polo?

Lo devono costruire. Si può essere il più bravo surfista del mondo, ma se non hai un punto dove arrivare rischi di continuare a passare da un’onda all’altra. Ma non lo puoi fare per tutta la vita.