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GIUSEPPE DE RITA, SOCIOLOGO, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ECONOMIA E DEL LAVORO
Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis, da oltre mezzo secolo osserva e interpreta i profondi cambiamenti della società italiana. Con i rapporti annuali del Centro studi ha raccontato l’Italia, anticipandone spesso le trasformazioni. In un momento segnato da conflitti internazionali, tensioni commerciali alimentate dai dazi di Trump, un’Europa messa in discussione anche dal severo giudizio di Mario Draghi e una crescente polarizzazione interna, con il referendum sulla riforma della giustizia alle porte.
Professore, in una intervista al Dubbio di un anno fa disse che gli italiani non si preoccupano delle guerre che sono alle nostre porte, è ancora così?
Certo che è così. La mentalità italiana non cambia: anche negli anni Trenta gli italiani non avevano alcuna voglia di fare la guerra. Vi furono trascinati dall’incuria, dalla pigrizia, dall’incapacità di mettere in discussione il fascismo. Succubi della retorica, finirono in guerra pur sapendo che era l’esteriorizzazione della macchina bellica fascista.
Gli ultimi episodi, come l’uccisione dell’influencer dell’ultradestra statunitense Charlie Kirk, hanno alzato il livello dello scontro, anche verbale. In Italia esiste il rischio di una escalation di violenza?
Non mi pare. È normale che la politica alzi i toni, ma chi ha vissuto gli anni Settanta conosce bene la differenza. Allora l’odio lo si percepiva e lo si toccava ogni giorno. Oggi ciascun fronte politico accusa l’altro di fomentare odio, ma in realtà sanno bene che se si dovessero incontrare a una festa di partito, non dico si abbraccerebbero, ma quasi.
Mario Draghi, durante una conferenza a Bruxelles a un anno dal suo Rapporto sulla competitività Ue con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha parlato di “inazione che minaccia la competitività europea e la nostra stessa sovranità”, è d'accordo?
Sono sempre stato d’accordo con Draghi, anche per un’antica colleganza: entrambi ex allievi del Massimo, seppur in anni diversi. Però, oggi attaccare la presidente della Commissione è diventato di moda: lo fanno tutti, da Vannacci a Travaglio a Renzi. Non credo sia il modo migliore per iniziare o proseguire un percorso di crescita.
Il ruolo dell'Europa in questo momento è davvero marginale nello scenario internazionale?
Mi domando perché è marginale? Perché mancano leader capaci di “fare i bulli”? Io credo che sia quasi un vantaggio rispetto a chi lo fa in America, Russia o Israele. L’Europa non è forte sul piano della dialettica internazionale, ma lo è sul piano economico: siamo tra le prime economie mondiali, ma non sappiamo valorizzare questa posizione. Sui dazi siamo stati passivi, sulle guerre restiamo prudenti perché sappiamo che i cittadini europei non vogliono la guerra.
Così facendo, scusi se insisto, si resta ai margini dei rapporti internazionali.
Sì, ma non è un aspetto negativo. In questo clima da wrestling internazionale, essere marginali può proteggere. L’economia europea avrà momenti di debolezza, problemi di deficit e di debito, ma resta una delle grandi potenze mondiali. Draghi dovrebbe ricordare che lui stesso ne è uno dei principali rappresentanti.
In un contesto dominato da bulli, come lei lo definisce, l’Europa può mantenere o riconquistare un ruolo?
L’Europa di Adenauer e De Gasperi aveva un ruolo politico: pacificazione, reintegrazione della Germania, una logica nuova. Con il Trattato del 1957 prevalse invece l’idea dell’unificazione economica, che ha sopravanzato quella politica e militare. Fu una scelta dei padri fondatori, e per questo oggi l’Europa è una potenza economica, ma non politica né militare.
Ritiene che sia ancora valida questa scelta o l’Europa dovrebbe cambiare indirizzo?
Non sono un politico e non ho il fiuto per dire cosa fare. Ritengo però che quella scelta sia stata pagata abbastanza. Oggi si potrebbe cambiare strada, ma manca una linea condivisa e soprattutto mancano leader carismatici come quelli degli anni Cinquanta. C’è la guerra contro la Russia, ma non è un elemento decisivo per la nostra economia. Draghi ha ragione: siamo potenti, ma incapaci di far pesare questa forza.
Ma Draghi potrebbe essere un leader forte e carismatico capace di far cambiare passo all’Europa?
È un uomo straordinariamente intelligente, protagonista nei momenti difficili della nostra storia. Ma oggi non ci sono ruoli adatti a lui. E in Italia, va detto, non è neppure molto amato.
A proposito dell'Italia in questo scenario europeo che ruolo sta giocando e quale potrebbe avere?
Oggi tutto è nelle mani della presidente del Consiglio. Non ci sono ministri degli Esteri o della Difesa che possano sviluppare politiche diverse da quelle della premier. Meloni ha scelto subito di schierarsi con gli Stati Uniti, ma osservando Trump mostra qualche cautela nel seguirlo fino in fondo. Grazie al suo intuito e alla sua furbizia riesce a restare a galla tra un'ipotesi americana dell'Europa, un'ipotesi europea dell'Europa, un'ipotesi italiana dell'Europa. Non la si coglierà mai in fallo nel privilegiare apertamente una di queste visioni, perché resta sempre su tutte e tre.
Come dice spesso lei è una brava surfista?
Ha costruito la sua carriera sull’onda. Ha un’attenzione spietata ai sondaggi e sente istintivamente il vento che tira. Gli altri non hanno questa specie di fiuto dell'onda, hanno le loro posizioni, le loro ideologie, i loro programmi movimentisti, lei ha il fiuto dell’opportunista. È l’unico modo per restare nella realtà: non dominante, ma vitale e resistente.
In questo quadro Giorgia Meloni allora durerà a lungo al potere, vista la difficoltà delle opposizioni?
In Italia il potere può durare quarant’anni, come è successo con la Dc, o poco tempo, come per Renzi o Conte. È impossibile prevedere il lungo periodo. Meloni sembra strutturata per resistere alle onde di lungo periodo, ma se arrivasse una crisi come quella del 1993, gestita da Amato, come reagirebbe? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che sulle onde dell’opinione pubblica è abilissima.
A proposito del 1993, allora il sistema giudiziario travolse la politica. Oggi si discute molto della riforma della giustizia: il referendum può dividere di nuovo l’Italia?
È una bella domanda, ma non ho una risposta netta. Politici e magistrati si insulteranno e drammatizzeranno il referendum, ma non ci sarà più la durezza di Mani pulite. Non vedremo pm alla Borrelli e Di Pietro o leader urlanti. Ci saranno firme, dichiarazioni, ma non la rabbia, l’odio e la voglia di cambiare di allora. Ricordiamo le monetine, le manifestazioni: quello era odio vero, magari fomentato, ma reale.
E oggi?
Oggi non ci si prepara a battaglie profonde. La maggioranza degli italiani conosce poco il referendum e se ne interessa ancora meno. È una questione tecnica: la divisione delle carriere non scalda il cuore dell’opinione pubblica. L'italiano medio pensa a una carriera unica dei magistrati, se non è mai capitato nelle grinfie della giustizia, per lui la distinzione tra Pubblico ministero e Gip è una cosa molto strana. Quindi convincerlo a intervenire nel referendum in base a sue convinzioni sarà difficile, serviranno campagne di alto livello. Per fortuna oggi non ci sono più le “tricoteuse” sotto la ghigliottina pronte a giudicare tutti. All’epoca di Mani pulite ci sono state ed erano a mio avviso insopportabili, ne conosco alcune e potrei fare i nomi, c'era un astio, un odio, un giudizio morale profondo: sono tutti ladri. Per fortuna quel clima non c’è più. Ma il referendum sulla giustizia rischia di restare un affare per addetti ai lavori.
Professore, tornando all’economia secondo lei l’Italia ha ancora la capacità di fare sistema a livello economico?
Più che “fare sistema”, l’Italia ha sempre saputo “stare nel sistema”. Non si è mai trattato di grandi strategie coordinate, ma di localismi e realtà territoriali capaci di inserirsi spontaneamente nelle filiere e nelle piattaforme globali. È questa capacità di adattamento a rappresentare la vera forza – e insieme la debolezza – del Paese: ci si adegua a regole esterne, talvolta poco chiare, ma trovando comunque il modo di sopravvivere e spesso prosperare. Lo vediamo anche oggi con il tema dei dazi: le imprese italiane osservano con attenzione, si riorganizzano, cambiano le modalità di esportazione, alcune hanno riempito i magazzini americani prima e perfino di confezionamento dei prodotti. Alcune riusciranno a trarne persino dei vantaggi.
Il governo rivendica l’aumento dell’occupazione, soprattutto al Sud. È una fotografia reale o un effetto del Pnrr?
L’impatto del Pnrr è stato sopravvalutato. Gran parte delle risorse si è tradotta in piccoli interventi locali – marciapiedi, asili, passeggiate – che hanno generato reddito immediato, senza però incidere davvero sulla struttura economica. Lo stesso vale per il superbonus: ha prodotto ricchezza in alcuni casi, ma non trasformazioni di fondo. Nel Mezzogiorno, piuttosto, è in corso da anni un lento processo di crescita autonoma, che procede quasi per inerzia storica più che per incentivi esterni.