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CLAUDIO BERTOLOTTI POLITICO
«Le decisioni politiche hanno prevalso su quelle militari». Parte da questa considerazione Claudio Bertolotti, direttore di Start In- Sight e ricercatore Ispi ( è anche autore del libro “Gaza underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas”), nel commentare l’avvio dell’occupazione di Gaza City da parte di Israele. Una mossa – per tanti versi ancora indecifrabile – con cui il premier Benjamin Netanyahu si giocherà tutto in termini di credibilità, soprattutto in patria.
Dottor Bertolotti, cosa ha in mente davvero Netanyahu adesso che ha ordinato l’assalto finale a Gaza City?
In questa guerra Netanyahu si sta giocando l’ultima carta importante del suo mandato da primo ministro. Un passo indietro a questo punto sarebbe una sconfitta. L’operazione militare, a fronte del timore di elevate perdite, sarà accompagnata da una narrazione che sosterrà i due obiettivi ultimi: la liberazione degli ostaggi israeliani e la distruzione di Hamas.
Tali obiettivi potrebbero compensare le difficoltà che oggettivamente ci saranno sul campo, dato che stiamo parlando di un teatro di guerra molto pericoloso per le IDF per cui Netanyahu non ha un’altra opzione. Nel momento in cui il premier israeliano dovesse dichiarare vittoria, farà un passo indietro e terminerà il suo mandato politico, in questo caso da eroe. Al contrario, invece, rischierebbe di concludere la sua esperienza come un reietto, destinato a una marginalizzazione politica se non addirittura a un esilio dorato.
È realistico occupare e controllare tutta la Striscia?
Tecnicamente è molto difficile. Non a caso i vertici militari hanno posto all’attenzione del governo le difficoltà oggettive. Ha prevalso però la volontà politica e a fronte di questo le IDF hanno dato inizio all’operazione militare, la più difficile probabilmente dalla loro costituzione perché è concentrata in prevalenza su un’area urbana. In un contesto del genere qualunque Stato maggiore cerca di evitare l’impiego delle truppe ed è conscio dei rischi che si corrono. L’operazione militare si concentra in un’area urbana, come quelle che abbiamo visto in passato, seppur con intensità e un impiego di forza decisamente più limitato, a Mosul in Iraq o a Falluja. Israele, forte anche dell’esperienza delle altre battaglie urbane in area mediorientale nell’epoca recente, ha avviato un'accurata fase di preparazione.
Il capo di Stato maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, predica ancora una volta prudenza. Il generale ha detto che sconfiggere Hamas, politicamente e militarmente, è una illusione e che l’invasione di Gaza non porterà ad “una vittoria militare completa”. Ha ragione Zamir?
Molto probabilmente, sì. Non dimentichiamo quanto ci insegna la storia. Pensiamo a quanto è successo con i talebani o con lo Stato Islamico. Qualunque operazione contro- insurrezionale degli ultimi decenni non ha portato a risultati soddisfacenti in termini di distruzione dell’avversario, anzi, in molti casi, ha portato a un rafforzamento degli stessi e a una vittoria, in conseguenza di una mancata sconfitta, da parte degli stessi gruppi insurrezionali. Hamas ha perso buona parte delle capacità militari, ma non è venuta meno la forza nel riuscire a reclutare e a convincere parte della popolazione nel sostenere la bontà della causa che porta avanti. Non parliamo della maggior parte della popolazione, parliamo di una minoranza comunque significativa. L’obiettivo è la distruzione di Hamas, ma il rischio è che possa sopravvivere nonostante l’occupazione concreta di Gaza City o di aree più ampie della Striscia di Gaza.
Gli Stati Uniti sostengono Israele. La visita del segretario di Stato americano, Marco Rubio, è servita per dare la definitiva benedizione all’operazione militare e anche per sostenere oggi, ma soprattutto in futuro, Israele?
Gli Stati Uniti sono sempre stati al fianco di Israele anche con l’amministrazione Biden, sebbene con una partecipazione più limitata e forse meno convinta. Oggi di fatto Israele ha carta bianca da parte dell’amministrazione Trump. È un sostegno che si basa anche su quelle che sono le prospettive future della Striscia di Gaza, che dovrebbero interessare l’intero arco regionale, in particolar modo gli alleati degli Stati Uniti, riportando al centro della partita un attore fondamentale come il Qatar. Il Qatar ha assunto una posizione più rigida, meno favorevole all’opzione negoziale a favore di Israele, ma deve tenere in considerazione i vantaggi di buone relazioni con gli Stati Uniti. Credo che ci sia una possibilità di allargamento del sostegno politico di alcuni Paesi arabi, anche se questo sostegno non avverrà mai pubblicamente. È una questione di opportunità di politica interna. I Paesi arabi guarderanno in direzione degli accordi di Abramo favorevolmente, puntando a normalizzazione i rapporti con Israele nel medio e lungo periodo.
La Commissione internazionale indipendente d’inchiesta dell'Onu sui territori palestinesi occupati ha detto che si sta consumando un genocidio sulla Striscia di Gaza. Si tratta di un’altra presa di posizione che peserà sul futuro di Israele?
Nulla di nuovo sotto il sole. Ci troviamo di fronte ad una terminologia ampiamente utilizzata. La Commissione alla quale lei ha fatto riferimento non è l’Onu, è una componente delle Nazioni Unite che si è sempre espressa contro le iniziative israeliane. Direi quindi che le conclusioni alle quali giunge non vanno a incidere, semplicemente confermano una postura prevalente all’interno delle Nazioni Unite che è molto critica nei confronti di Israele. Quello che conta però all’atto pratico è il ruolo giocato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: è l’unico organo che ha un reale peso e una capacità di incidere sulle scelte delle relazioni internazionali e che in questo momento non ha avviato nessuna contestazione o procedura nei confronti di Israele.