Non si sa quando sarà, ma la parola congresso agita il Pd. Il leader dei Labour dem ed ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, si districa nettamente tra le due parti per ora sedute al tavolo, zingarettiani e renziani.

Lei con chi sta?

Io sto a sinistra, sono sempre stato lì e ci rimango. Quanto ai nomi, non mi accontento di affermazioni generiche, valuto i programmi per quel che dicono e per quel che fanno. A partire dalla mia posizione: io sono limpidamente socialdemocratico, non sono uno di quelli che rinnegano le proprie radici, le temono oppure - peggio ancora - se ne vergognano.

La sinistra, per ora, è in fase di spaesamento, più che di autocritica.

Io invece la faccio: penso che uno dei nostri errori sia stato quello di non aver avuto la forza di anteporre al liberismo di mercato un’alternativa di modello di società che trovasse un equilibrio tra le ragioni dell’impresa e del lavoro: abbiamo fatto solo la riduzione del danno. I nostri ci hanno abbandonato, perchè la sinistra non ha saputo pen- sare alla redistribuzione del reddito, in un trentennio in cui la ricchezza è evaporata verso l’alto. Ancora, abbiamo sposato acriticamente il tema dell’innovazione che, anzichè tradursi in modernità, si è tradotto in modernismo senza tutele per i più deboli.

E di questo si parlerà al congresso, secondo lei?

Noi laburisti un contributo lo daremo, scrivendo un documento programmatico. Abbiamo combattuto battaglie importanti: non sempre le abbiamo vinte, alle volte abbiamo ottenuto risultati parziali, ma ritengo che la radice storica e politica della sinistra debba avere una chiara rappresentazione di contenuto all’interno del congresso.

Cosa propone la sua sinistra per il Pd?

Innanzitutto di uscire dalla mistica del partito leggero. Vorrei un partito solido, radicato nel territorio, che utilizza il web come strumento e non come fine e non sostitutivo del contatto con le persone. Vorrei che il prossimo congresso avesse un segretario che si occupa esclusivamente di rifondare un partito in agonia. Penso che lo Statuto vada profondamente rimaneggiato, perchè è stato scritto al tempo della vocazione maggioritaria e del bipolarismo, tutte cose archiviate.

E sul piano dei contenuti?

Dobbiamo avere il coraggio di affermare che siamo antiliberisti, che crediamo nell’intervento regolatore e di controllo dello Stato nell’economia, che stiamo con Keynes. Il mio partito deve sapere che privatizzare e liberalizzare non è sempre la strada e che diminuire l’intervento dello Stato non è la panacea di tutti i mali. Insomma, vorrei un partito che dica che ha sbagliato a togliere la tassa sulla prima casa per i ricchi, che voglia superare la legge Fornero sulle pensioni e anche le parti negative del jobs act, come quella sui licenziamenti individuali illegittimi, restituendo al giudice la discrezionalità nella valutazione.

Il tutto da fare con un Governo in carica di cui non si sta intaccando il consenso.

Al di là di una grande capacità di comunicazione, il Governo si sta muovendo in modo contraddittorio su molti fronti: basti citare le oscillazioni pro o contro l’Ue e il ridicolo avanti e indietro sui vaccini. Ora arriverà il nodo della Finanziaria, in cui si parla di 30 miliardi di euro: tanti, e comunque insufficienti a mantenere tutte le promesse. C’è la clausola relativa all’iva, che da sola vale 11 miliardi, se altri 10 debbono essere spesi nel reddito di cittadinanza una cifra analoga dovrà essere utilizzata per “superare” timidamente la legge Fornero: si arriva già a 30 miliardi. Fuori rimangono la flat tax e tutti gli impegni richiesti dal Milleproroghe.

Eppure alcuni risultati sono stati raggiunti. Sul caso Ilva, per esempio, anche se Calenda rivendica le origini dem della proposta.

La traccia dell’accordo è quella preesistente, certo. Per fortuna Di Maio ha messo in soffitta la diatriba sulla non legittimità dell’accordo e la messa in discussione di Mittal, che poi è diventata il compratore. Molto merito del risultato va alla tenuta unitaria del sindacato: il contenuto finale è positivo, con l’assorbimento di tutta l’occupazione e la bonifica dei rifiuti: ora speriamo che il referendum del 13 settembre lo confermi.

A proposito di jobs act, Di Maio ha detto: “Lo abbiamo tenuto fuori dalla fabbrica”.

Quella è stata un’importante battaglia vinta da parte del sindacato, che al tavolo di trattativa è riuscito a mantenere il salario preesistente e anche i diritti. I lavoratori mantengono la tutela dell’articolo 18, essendo stati assunti prima dell’avvento del jobs act. Questo dimostra qualcosa che il Pd ha spesso dimenticato.

Cioè?

Si sfata il mito liberista secondo il quale non si investe in Italia a causa dell’articolo 18. L’accordo con questa multinazionale dimostra che non è vero e impone alla sinistra un ulteriore intervento per migliorare le attuali normative del jobs act per quanto riguarda i licenziamenti, individuali e illegittimi.