«Questi numeri non possono essere fisiologici, anche se alcuni magistrati preferiscono considerarli tali». Il riferimento è ai 42 milioni di euro spesi nel 2016 dallo Stato, per risarcire ingiuste detenzioni ed errori giudiziari e, ad occuparsi di giustizia “ingiusta”, è il ministro della Famiglia e degli Affari regionali e avvocato, Enrico Costa.

Ministro, partiamo dai dati. I numeri crescono esponenzialmente: nel 1992 sono stati risarciti 2,5 milioni di euro per ingiusta detenzione, nel 2016 arriviamo a 31 milioni. Che cosa significa?

Significa che esiste una patologia nel sistema e il dato non può essere considerato solo fisiologico, come invece ritengono alcuni magistrati. Anche perché voglio ricordare che dietro le cifre ci sono prima di tutto vite, storie e famiglie che attendono, tra l’altro, i tempi lunghissimi di queste decisioni.

A proposito di questo, i tempi delle decisioni sono lunghi, anche per i risarcimenti dovuti a errori giudiziari.

Anche questo non è normale. Penso soprattutto alle ingiuste detenzioni, che sono sostanzialmente carcerazioni preventive errate nei confronti di persone che invece non avrebbero dovuto finire in carcere. La decisione finale del risarcimento deve avvenire in fretta, perché i tempi contano moltissimo: se una persona finisce in carcere ingiustamente e, per ottenere giustizia, deve attendere 10 anni, il risarcimento non vale nulla. Nessuna cifra restituisce la dignità e la sofferenza patita.

Anche la prescrizione è un tema caldo, oltre alla ragionevole durata dei processi...

Il punto è uno: la prescrizione troppo lunga determina un allungamento dei tempi dei processi e comporta che una persona innocente si veda riconosciuta questa situazione anche dopo 10 anni.

Lei è stato viceministro della Giustizia, il dibattito su questi temi è ancora molto aperto. Qualche luce in fondo al tunnel?

Il ministro Orlando ha fatto un grandissimo lavoro, con provvedimenti utili sia nel campo penale che nel civile. Ora auspico che venga approvato al più presto il ddl sul processo penale pendente al Senato. Io credo, però, che l’elemento da mettere al centro sia l’attenzione al cittadino, che deve avere un rapporto civile con il sistema giustizia. Sia che si tratti della persona offesa che deve fare valere i propri diritti, sia che si tratti di un indagato che deve difendersi.

Lei chiede di mettere i cittadini al centro, ma l’Anm minaccia lo sciopero all’apertura dell’anno giudiziario per problemi legati ai pensionamenti dei magistrati.

C’è una gerarchia di principi da tutelare: la patologia della libertà personale ingiustamente sottratta non può essere messa sullo stesso piano delle ferie dei magistrati e dell’età pensionabile.

A proposito di magistrati, i dati sulla giustizia “ingiusta” sono distribuiti a macchia di leopardo nel Paese. Per una corte d’Appello di Napoli con 145 casi di “malagiustizia” e una di Catanzaro con 104, ci sono Milano con 46 casi e Taranto con 4. Come lo spiega?

La risposta è che ci sono tribunali che, evidentemente, sbagliano di più. Non compete a me cercarne le ragioni, lo faranno altri organismi. Il punto, però, è che non esistono norme che permettano di avviare un’azione disciplinare nei confronti di chi sbaglia. Alla fine paga solo lo Stato e questo è molto grave.

Servirebbe una nuova norma, quindi?

Il dato è che ad oggi manca una norma che preveda l’automatica trasmissione di questi provvedimenti di riparazione per ingiusta detenzione al titolare dell’azione disciplinare, per verificare se qualcuno ha sbagliato. Mi piacerebbe che nell’agenda dell’Anm ci fossero anche questi temi, che mi sembrano di civiltà giuridica, oltre alle pensioni.

Lei ha frequentato i tribunali, prima di diventare ministro. Esiste davvero il problema dell’eccessiva mediatizzazione dei processi?

Io registro il fatto che, quando i giornali affrontano questioni penali, l’unica campana che si ascolta è quella dell’accusa. Questo determina una presentazione mediatica sbilanciata. Detto questo, la giustizia si fa nei tribunali e i processi devono andare a sentenza il prima possibile. Ovviamente, però, è sotto gli occhi di tutti che in alcuni casi ci sia un cortocircuito.

E quale sarebbe?

Che l’accusa si rafforza anche grazie al palcoscenico mediatico e quindi si crea un nesso sbagliato tra magistratura e media. La ribalta mediatica, tra l’altro, in alcuni casi determina la popolarità di magistrati. Una popolarità costruita su vicende giudiziarie che diventa poi trampolino per entrare in politica.

I nomi dei magistrati, però, sono intrinsecamente connessi al caso giudiziario...

A questo proposito, ricordo che la precedente proposta di legge sulle intercettazioni conteneva un emendamento che inibiva la pubblicazione di nomi e fotografie dei magistrati competenti, relativamente ai casi di cronaca. Questa era una modalità votata dal Parlamento per evitare che alcuni esponenti della magistratura guadagnassero popolarità sulla pelle dei cittadini.

Questa previsione, però, è finita su un binario morto?

Sì, ma c’è sempre tempo per richiamarla, almeno come argomento di riflessione collettiva.