PHOTO
condanne
C’è un pezzo di magistratura – una “corrente” piccola ma ancora assai influente – che non si rassegna al cambiamento e vive ogni tentativo di riforma come fosse un delitto di lesa maestà; è tenacemente arroccata a difesa di una sorta di “autarchia giudiziaria” e si serve di ogni strumento per contestare e delegittimare chi faticosamente cerca di traghettare la giustizia italiana nel nuovo millennio e dentro i confini della nostra Carta; confini che più di una volta sono stati oltrepassati in nome di una non meglio precisata lotta per la legalità, la quale, però, diviene abuso se si muove violando diritti, garanzie, leggi. È una corrente trasversale che ha le sue sottosezioni di propaganda sparse tra le redazioni di vari giornali e il cui stato maggiore risiede nella sede del Fatto quotidiano, vera e propria centrale operativa di questo blocco di potere che ha individuato negli avvocati e nella ministra Cartabia i nemici pubblici numero uno. Lo ha detto bene ieri l’ex presidente dei penalisti italiani, Spigarelli: “Tutto ciò – ha spiegato al Dubbio – si iscrive in una idea della magistratura come proprietaria della macchina giudiziaria, per cui gli estranei non sono ammessi; e all’interno di una visione degradante anche della figura sociale e professionale degli avvocati”. E lo ha ribadito il consigliere laico del Csm Alessio Lanzi, che si è ritrovato quasi solo ad arginare la furia delle toghe contro la riforma: “Traspare nel parere una sfiducia, un senso di superiorità nei confronti della classe degli avvocati sia singolarmente considerati che riuniti nell’organo istituzionale di diritto pubblico che è il Coa. Si prevede che allargare agli avvocati le attività dei Consigli giudiziari determinerebbe degli scompensi, delle captatio benevolentiae, sostenendo chissà quali manovre illecite”, ha detto riferendosi al parere negativo sulla piena partecipazione degli avvocati ai Consigli giudiziari. Ma attenzione, c’è una terza categoria che da anni subisce in silenzio la passione per i media coltivata da quel pugno di procure: parliamo dei giudici. Sono proprio loro, i giudici, le “vittime collaterali” di questa guerra fredda combattuta da almeno trent’anni su giornali e tv. La smania di visibilità di alcune toghe e questa continua sbavatura istituzionale colpisce gli indagati e gli imputati, certo, ma anche chi si ritrova a dover giudicare dopo che il “tribunale del popolo” ha già trovato colpevoli e comminato pene a mezzo stampa. E qui chiamiamo in soccorso il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho: “L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa – ha spiegato qualche settimana fa – rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria”. E poi, ancora più esplicito: “Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione. Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o che anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti”. Insomma, è questo circolo vizioso che va spezzato. E se non volete farlo per amore di ministri riformatori e avvocati, fatelo almeno per i giudici.