In Italia sono presenti circa duemila investigatori privati autorizzati che coordinano diverse decine di migliaia di operatori. Un piccolo esercito che difende con sempre maggiore convinzione la propria dignità professionale. Federpol, presieduta da Luciano Tommaso Ponzi, è l’associazione di categoria più rappresentativa che riunisce un migliaio di investigatori privati.

L’associazione è stata fondata nel 1957 dal questore Giuseppe Dosi, famoso per aver seguito il “caso del mostro di Roma”, per aver salvato il museo di via Tasso a Roma e per aver coniato il termine “Interpol”. «Il protocollo di intesa sottoscritto con la Scuola superiore dell’avvocatura – afferma Ponzi - è una tappa fondamentale, attraverso la quale si svolgerà una comune attività di formazione con protagonisti gli avvocati e gli investigatori privati. Una collaborazione significativa per un reciproco arricchimento del bagaglio delle competenze».

Dottor Ponzi, la collaborazione tra l’avvocatura istituzionale e Federpol segna una tappa molto significativa. Quali sono i punti di contatto tra l’attività forense e quella delle investigazioni?

Le due professioni si intrecciano per forza di cose, per la loro stessa natura. Entrambe sono d’ausilio per la ricerca della verità e della giustizia. Per la verità processuale, prima di ogni cosa. Il protocollo di intesa con l’avvocatura deriva dalla sensibilità mostrata dal Cnf, che ha ascoltato l’appello della Federpol credendo nella sinergia comune. I punti di contatto sono numerosi. L’obiettivo è fare in modo che sia l’avvocato del libero Foro che l’investigatore privato facciano matching, si incontrino per relazionarsi con l’individuazione dei punti di forza comuni ad entrambe le professioni. L’investigatore ricerca delle evidenze in favore dell’avvocato, che in sede dibattimentale, ma non solo lì, lavora per trovare delle prove a favore del suo assistito.

L’avvocato, secondo lei, deve conoscere anche delle tecniche di investigazione, tenendo sempre conto degli ambiti di lavoro che lo riguardano?

Sicuramente è utile e con il protocollo di intesa firmato di recente con il Consiglio nazionale forense andremo anche a sviluppare dei corsi di formazione ben precisi. Un aspetto però è bene evidenziare. Talvolta l’investigatore privato vuole fare l’avvocato e l’avvocato, spesso, vuole vestire i panni dell’investigatore, dedicandosi a qualche attività extra. Ognuno ha il suo ruolo e le sue competenze. A proposito di queste ultime è giusto che siano sviluppate sempre di più.

Dunque, il modello dell’avvocato alla Perry Mason, osannato dal cinema e dalla televisione, è lontano anni luce dalla nostra realtà?

Certo. Stiamo parlando di una figura cinematografica collocata in un determinato contesto, quello statunitense. Come dicevo, ognuno ha le proprie competenze e specializzazioni, e in base alla realtà di riferimento considero positive le collaborazioni all’interno degli studi legali. Più un professionista è specializzato, più il risultato sarà migliore.

Il lavoro dell’investigatore privato ha subito dei cambiamenti nel corso degli anni?

La normativa che regola l’attività degli investigatori privati risale ad un Regio decreto del 1931 e sottolinea non un’autorizzazione, ma un divieto. L’articolo 134 infatti vieta a chiunque la raccolta di informazioni per conto di privati o enti senza l’apposita licenza. Nel corso degli anni abbiamo assistito ad una evoluzione. Con il dopoguerra, a partire dal 1946 iniziano i primi cambiamenti. Con il boom economico le cose sono cambiate ulteriormente e la nostra attività ha incominciato a riguardare non solo la sfera privata dei cittadini, ma anche le attività delle aziende. La riforma penale di una ventina di anni fa ha avuto, sotto certi aspetti, anche delle ripercussioni sul ruolo dell’investigatore privato. Fatto sta che il nostro è un lavoro molto delicato e nell’opinione pubblica alcuni elementi non vengono percepiti adeguatamente.

A cosa si riferisce?

Per l’avvocato in alcuni casi è stato costruito e diffuso lo stereotipo legato alla figura di Perry Mason, mentre per l’investigatore privato è stato affiancato il cliché del faccendiere, di un soggetto borderline che si mette al servizio del miglior offerente. Sono stereotipi creati anche da certa cinematografia. Va scardinata questa visione, così come l’approccio superficiale di alcuni media e di certe trasmissioni televisive. Per esempio, sul caso Totti-Blasi non sono mancate delle mistificazioni con dichiarazioni da parte di alcuni esperti non certo lusinghiere sulla nostra attività. Strumentalizzazioni e notizie fuorvianti che dimostrano la poca voglia da parte degli organi di informazione di fare chiarezza sul nostro lavoro. Gli investigatori privati sono i primi a rispettare la legge.

La dinastia Ponzi, alla quella lei appartiene, ha dato un contributo considerevole per far sviluppare e conoscere in Italia un lavoro difficile. La figura dell’investigatore privato conserva ancora il suo fascino?

Occorre premettere che il nostro lavoro è radicalmente cambiato. Gli anni della “Dolce vita” hanno scandito una fase molto importante per la nostra professione. È stata l’epoca migliore anche se prevalentemente rivolta alle questioni private, al jet set di quel periodo, collocato tra anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Prima erano pochissimi gli investigatori privati, non che adesso ce ne siano tanti. Gli strumenti che venivano utilizzati erano davvero all’avanguardia e a disposizione di pochi. Oggi la tecnologia facilita molto il lavoro quotidiano. Ieri come oggi, però, non si può prescindere da alcune precise caratteristiche e attitudini richieste: intuito, tatto e spirito di sacrificio.