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L’enfasi che all’avvicinarsi delle urne è stata posta sul fatto che qualunque fosse stato il risultato nulla sarebbe cambiato negli equilibri di maggioranza e governo, è figlia di due consapevolezze. La prima è che, al contrario, ogni tornata elettorale comporta riflessi sul quadro nazionale che a volte diventano sconquassi. Come avverrebbe se la Lega espugnasse la Toscana o i No prevalessero nel referendum. La seconda è che il vero tornante è rappresentato dall’impiego dei 200 miliardi del Recovery Fund e dal conseguente rispetto degli obblighi stabiliti dalla Ue ora non più matrigna: la carta politicamente più importante che il Pd e Zingaretti non cessano di agitare. Sono entrambe consapevolezze fondate: e vincolanti. La seconda di più, perché qualsiasi terremoto nelle percentuali di questo o quel partito non può esimere l’Italia dall’affrontare la prova della tutela sanitaria anti-Covid e dell’ammodernamento del Paese, unica condizione per riprendere a crescere. Bruxelles ha fatto il suo dovere, ora tocca a noi. L’imbuto è tanto stretto quanto inevitabile. C’è chi sostiene che bisognava sciogliere le Camere alla caduta del primo governo Conte. Allora quello sbocco fu considerato improponibile e rischioso: a maggior ragione lo sarebbe adesso, visto che se vincono i Sì bisogna fare una nuova legge elettorale. Perciò, tralasciando opportunistici infingimenti, la via è segnata: comunque vada il voto, bisognerà governare. E’ difficile adesso. Potrebbe diventare difficilissimo, addirittura improbo, da martedì. Quando all’abbandono - di cui sono ampiamente visibili i prodromi - delle ambizioni di intesa strutturale tra Pd e Cinquestelle, minaccia di aggiungersi un rapporto con le realtà territoriali fatto di crescenti baruffe e sordità reciproche. L’Italia non si merita una simile condizione. Né che un responso importante si trasformi in una ordalia senza limiti. E’ fondamentale individuare un minimo comun denominatore che consenta al Paese di presentarsi pronto all’appuntamento con un’inondazione di risorse finanziarie come mai avvenuto dai tempi del piano Marshall. Sta qui il vero discrimine, non nei posizionamenti di Palazzo per eleggere il nuovo capo dello Stato. Il mandato di Mattarella scade tra 16 mesi. Le scelte per attivare il Recovery tra 4 settimane. Fin troppo chiaro la priorità dov’è.