Quando si dice che la pandemia ha mostrato la vulnerabilita’ “delle magnifiche sorti e progressive” della modernità si dice una cosa vera, entrata nel senso comune, perché è nell’esperienza di ciascuno di questi mesi.

In altrettanto modo è entrato nel senso comune l’utilità del digitale che ha consentito molte cose. Alle persone, anche nel lockdown, di spezzare solitudini e mantenere relazioni affettive. Alla pubblica amministrazione di continuare a erogare servizi, alle imprese più digitalizzate di continuare a produrre e ridurre i danni. Alla scuola di mantenere il rapporto educativo con gli studenti. Non con tutti: anche in questo caso hanno pesato la diffusione della banda larga, le competenze informatiche e le differenze nel possesso degli strumenti informatici. Nuove frontiere delle diseguaglianze.

Anche lo Smart working, il lavoro da remoto, e’ entrato nel senso comune; ha mostrato in questi mesi vantaggi e limiti ed è stato ampiamente indagato il suo alto tasso di gradimento da parte delle imprese e delle persone. Gli studi del Politecnico di Milano e della Fondazione Di Vittorio spiegano le ragioni del gradimento: da parte delle imprese nell’aumento della produttività. Da parte delle persone tutte legate all’uso del tempo: al tempo recuperato del casa- lavoro e viceversa, al tempo per se’e per i propri cari; al tempo di vita, di autonomia e libertà. Da parte della collettività per l’impatto positivo sull’inquinamento e il traffico.

Ostacolato per anni, dalle imprese per le modifiche organizzative e di cultura aziendale necessarie e dalla diffidenza delle organizzazioni sindacali che nella dimensione collettiva ha costruito i diritti del lavoro, oggi si è ripreso la scena.

Non sono così sicura però che la nuova centralità del lavoro agile sia inserita in una visione complessiva delle trasformazioni positive che la rivoluzione digitale consente, ma non realizza automaticamente.

In primo luogo il cambiamento del lavoro trainato dal digitale e’ un tema squisitamente politico perché cambiando il rapporto tra le persone e il lavoro e il lavoro e la vita, cambia il modo delle persone di vivere nel proprio ambiente e cambia il contesto. E l’ambiente. Impossibile non legare la diffusione sempre maggiore dello Smart working con l’utilizzo dei coworking, il piano degli orari delle città, l’utilizzo differente degli spazi delle città, le Smart city.

In secondo luogo la sua regolazione ha aspetti squisitamente sindacali perché si tratta di regolare tempi, modalità, sicurezza della prestazione lavorativa, diritto alla disconnesione e ancora altro a partire dal diritto alla formazione. Nel senso stesso dello Smart working c’e’ la possibilità di un suo utilizzo flessibile: non per sempre, non per tutte le settimane, non per tutti i giorni della settimana. Ma non si tratta solo di questo. Con la regolazione contrattuale vanno riconosciuti i diritti del lavoro subordinato, dal bonus baby sitter ai congedi parentali. Perché in caso contrario lo Smart working e’ in sé uno strumento di conciliazione che riassorbe tutti gli altri. Più che una modalità di svolgimento del lavoro subordinato, come dice la legge.

In terzo luogo se per esempio lo Smart working venisse interpretato come strumento di conciliazione tra vita e lavoro dedicato alle donne, assumerebbe subito una connotazione precisa. Di ritorno indietro, versi modelli culturali patriarcali e di ritorno a casa, fuori dal mercato del lavoro. Soprattutto in un tempo, questo, in cui l’occupazione femminile è a rischio perché concentrata nei settori più esposti alla crisi post Covid. Certo gli stereotipi culturali sulla divisione dei ruoli sono ben solidi, non li crea lo Smart working. Ma si possono rafforzare o indebolire a seconda delle politiche pubbliche, culturali e sociali. Il Family act, cioè il testo proposto dal Governo per sostenere le famiglie con risorse dedicate e incentivi alla genitorialita’ condivisa, parla di Smart working nell’art 1, lettera b. E dice nel dettaglio: «Promuovere la parità di genere all’interno dei nuclei familiari, favorendo l’occupazione femminile, anche attraverso la predisposizione di modelli di lavoro agile o flessibile volti ad armonizzare i tempi familiari di lavoro e incentivare il lavoro del secondo percettore di reddito». Ne va chiarito il senso. Magari precisando ed esplicitando che il lavoro agile può essere uno strumento per conciliare la paternità e il lavoro, quindi legandolo non soltanto all’occupazione femminile. E soprattutto deve essere una modalità di lavoro scelta da uomini e donne, resa possibile da una organizzazione del lavoro fondata sui risultati piuttosto che sul controllo gerarchico. Utile a superare gli stereotipi nella divisione dei ruoli, non a cristallizzarli.

* presidente Led, libertà e diritti