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Gli eventi che mutano il corso della storia rimangono impressi nella memoria come marchi indelebili, sciolti in un intreccio con la propria storia personale. Furio Colombo, giornalista e profondo conoscitore degli Stati Uniti (è stato corrispondente per La Stampa e La Repubblica e ha scritto per il New York Times), ricorda così quel martedì pomeriggio di quindici anni fa, in cui l'America cambiò per sempre.Dove si trovava l'11 settembre 2001?Non ero in America ma in Italia. Ricordo di essere entrato nella redazione di quello che allora era il mio giornale, l'Unità, e di aver alzato per caso gli occhi su una televisione accesa. Guardando le immagini dell'attacco alla prima torre ho pensato "che strano film stanno trasmettendo", e ho chiesto ad un collega di alzare l'audio per ascoltare. Purtroppo non si trattava di cinema.Quale è stata la sua prima reazione?Per prima cosa ho chiamato mia figlia, che è medico e in quel periodo lavorava a New York. Lei era già, ovviamente, allertata di ciò che stava succedendo ed ha partecipato al team di medici che si sono occupati dei feriti. Un dettaglio terribile di quell'attentato è che i feriti sono stati pochissimi: la maggior parte dei sopravvissuti erano indenni, gli altri invece sono tutti morti senza possibilità di venire soccorsi.Da cronista, invece, come ha interpretato l'attentato alle Twin Towers?Con un misto di stupore e incredulità. L'attacco alle Torri Gemelle ha distrutto il mito dell'intoccabilità dell'America, l'idea stessa che gli Stati Uniti fossero un contenitore sicuro, con una struttura meno imperfetta rispetto a quella degli altri paesi occidentali. Questo era stato un concetto che avevo più volte scritto e utilizzato anche nei miei libri, completamente ribaltato.Dopo l'attacco, come ha visto reagire l'America?Il paese ha conosciuto un enorme moto di compattamento e la gente si è spontaneamente unita, per sopravvivere e per salvarsi. Si sono rivisti gli Stati Uniti resistenti, di ispirazione roosveltiana: non a caso il simbolo dell'11 settembre sono i vigili del fuoco, non i soldati. Infatti, nonostante sia stata immediatamente identificata la matrice araba dell'attentato, non si è verificato nemmeno un episodio di vendetta.Eppure, alla fine, la risposta statunitense è stata quella che all'epoca è stata chiamata la "guerra al terrore".La disgrazia degli Stati Uniti è stata di avere George W. Bush come presidente. Un uomo modesto e un leader senza carisma, che si è lasciato persuadere che la guerra fosse la risposta.Invece, col senno del poi, avrebbe potuto agire diversamente?Gli Stati Uniti hanno immediatamente individuato l'origine del fenomeno terroristico in Medioriente, un'area che all'epoca era prevalentemente filo-americana: c'erano tutte le condizioni per utilizzare la diplomazia internazionale e creare un'alleanza contro gli estremisti e isolarli sul nascere. Invece l'occasione è stata persa, come dimostrano le due brutte guerre dell'Afghanistan e dell'Iraq.Due brutte guerre che hanno visto scendere in campo anche l'Europa, al fianco degli Stati Uniti.Il complice di Bush è stato Tony Blair con le sue menzogne. Lui ha fornito agli Usa l'alibi per la dichiarazione di guerra, sostenendo di avere le prove, poi rivelatesi inesistenti, dell'esistenza di armi di distruzione di massa "capaci di colpire in 45 minuti". Un'indiscriminata falsificazione della realtà, su cui solo in tempi recenti si è alzato il velo davanti all'opinione pubblica.Oggi gli attentati terroristici sono diventati quasi un fenomeno atteso, ma è possibile aspettarsi un nuovo attacco delle proporzioni dell'11 settembre?Il terrorismo è come l'ebola: a volte sembra debellato ma può sempre ripresentarsi, anche quando si ritiene di fare di tutto per contrastarlo. Quanto alle proporzioni, spesso accade che attentati anche non ben pianificati abbiano proporzioni inaspettatamente clamorose, al di là dei pronostici dei terroristi.L'Isis che oggi conosciamo è la diretta conseguenza dell'al-Qaeda di quindici anni fa?Non direi. Il terrorismo è come una malattia che si manifesta in molti modi. L'Isis è una delle espressioni del terrorismo, che si contraddistingue proprio per la relativa facilità del suo impegno distruttivo e per il fatto che offre esiti molto diversi uno dall'altro e, soprattutto, vasti.Dopo quasi due decenni, si intravede una cura a questo male?Io sono convinto che prendere precauzioni come i controlli sugli aerei e nelle stazioni sia giusto, ma che questo non tocca in alcun modo le radici del fenomeno. Manca ancora un vaccino a questo morbo: i politici, però, non sono come i medici e, invece di cercarlo, rispondono solo con bombardamenti e muri.La risposta politica rimane inadeguata, quindi?Guardando all'oggi, l'immagine della sua inadeguatezza sono Obama e Putin che si stringono le mani invano, sulle macerie fumanti di Aleppo. Quella è la dimostrazione che, drammaticamente, la politica internazionale non ha imboccato alcuna strada per cercare il vaccino a questo male.E dove va cercato questo vaccino?L'unico modo per tentare una soluzione sarebbe quello di fare come i geologi per i cicli carsici, risalendo pazientemente alle cause del terrorismo, per poi isolarle con una politica di medio e lungo periodo, fatta con la diplomazia e la cultura.