Il post del magistrato Sebastiano Ardita sul caso di Giulia Tramontano ha suscitato molte polemiche. Ne parliamo con l’avvocato Nicola Canestrini, referente nazionale per l'Italia del Legal Experts Advisory Panel (LEAP) di Fair Trials International.

Che ne pensa di quel post?

Ne sono disgustato. Intanto, prima di parlare di un caso concreto presentando un indagato come colpevole è non solo opportuno, ma giuridicamente necessario, aspettare la sentenza definitiva, dato che è noto come persino la confessione non sia affatto prova legale della colpevolezza. Mi stupisce poi che un magistrato ripeta delle parole che normalmente siamo abituati a sentire al bar, e da persone che non conoscono l’abc dello stato di diritto ed il funzionamento della giurisdizione. Un operatore del diritto dovrebbe conoscere i rischi per lo stato di diritto che la delegittimazione del ruolo del Parlamento e della legge comporta: è davvero incredibile che si sfrutti una vicenda di cronaca per criticare in termini generali istituti previsti dalla legge. Purtroppo l’ex consigliere del Csm pretermette completamente la valutazione che i suoi colleghi magistrati faranno sul caso concreto, dato che non esiste automatismo in termini di pena, come ci ricorda la Corte costituzionale, né ovviamente in termini di benefici. Mi ha fatto davvero molta impressione leggere il dottor Ardita, che naturalmente ha tutto il diritto di criticare ciò che non approva, anche istituti deflattivi o che rafforzano il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, ma farlo sulla pelle di una vittima con quelle parole temo che abbia solo alimentato l’emotività, e cioè la pancia giustizialista delle persone che sventolano la bandierina della certezza della pena erroneamente intesa come certezza del carcere.

Quanto da lui scritto non mette in discussione la cultura della giurisdizione che molti magistrati sbandierano, tenendo fuori poi gli avvocati?

La cultura della giurisdizione accomuna tutti gli operatori del diritto – magistrati e avvocati -, se per questa locuzione si intende la cultura del processo e di coloro i quali concorrono a realizzare la giurisdizione. Purtroppo troppe volte il concetto è usato per supportare i tentativi di magistrati inquirenti che, quando il collega giudicante non accetta la loro prospettiva, dubitano della legittimità delle loro decisioni, come avvenuto con quella famosa intervista di Gratteri sul Corriere della Sera.

Ardita termina il suo post dicendo che “il sistema penale non fa più paura”.

Il sistema penale non ha una matrice culturale di valenza educativa. Esso scopre gli autori di reato e li punisce secondo la funzione costituzionale della pena, che è retributiva ma soprattutto rieducativa. Chi sogna un sistema penale solo repressivo e vittimo-centrico deve appellarsi al legislatore, anche costituzionale. Sino a qual momento si metta il cuore in pace.

Lei parlava di vittimo-centrismo. Un grosso problema culturale e processuale.

Anche se spesso le vittime hanno più pietas di quanto si potrebbe immaginare, in generale la vittima ha tutto il diritto di chiedere la vendetta. La giustizia è un’altra cosa: ecco perché non si può lasciare alla vittima la decisione su quale sarebbe la giusta pena perché ti risponderebbe “occhio per occhio, dente per dente”. Ma come hanno capito i romani (e persino i longobardi che prevedevano un possibile risarcimento al posto della vendetta), una visione di quel genere crea disordine sociale. La giustizia deve avere un punto di vista altro rispetto alla vittima. Quest’ultima certamente può o deve avere parola, ma non le si può lasciare la facoltà di decidere la pena, perché non sarebbe mai sufficiente. Per quanto concerne la funzione deterrente della pena inviterei a guardare agli Stati Uniti, dove neanche la pena di morte riesce ad assolvere quello scopo.

C’è anche un problema culturale, giuridico ma anche linguistico rispetto al fenomeno del femminicidio?

Ci hanno raccontato che introducendo il reato specifico il fenomeno sarebbe diminuito. Come se il problema della violenza sulle donne si dovesse risolvere con l’inasprimento delle pene e col diritto penale. Ovviamente non ha funzionato perché come diceva lei è un problema culturale, e questo un magistrato dovrebbe saperlo. Quando la politica non sa cosa fare inasprisce le pene, certificando così la propria incompetenza: alla fine non serve a niente. Lo usano i politici per ottenere facili consensi ma poi si rileva una foglia di fico, in quanto quello che davvero occorrerebbe fare è una seria prevenzione mediante una certosina azione culturale, che però non si fa perché richiede competenza, costa, non porta consensi, non porta a titoli sui giornali, non ha effetto “show”.