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Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio conti pubblici italiani dell’università Cattolica, risponde da Washington alle nostre domande e spiega che «bisogna trovare il modo di rendere permanente la crescita di questo periodo, affinché il debito accumulato durante la pandemia sia sostenibile» Professor Cottarelli, possiamo dire che la tempesta della crisi economica è passata o dobbiamo fare ancora attenzione? Se non ci sono sorprese dal punto di vista sanitario credo che la crescita continuerà e sarà più forte del programma del governo, che aveva previsto un +4,5 per cento. Da qualche settimana dico che si arriverà al 5 per cento e la nostra previsione come Osservatorio conti pubblici italiani arriva al 5,2 per cento. Sinceramente mi hanno stupito le osservazioni finali del governatore di Bankitalia che ha detto che cresceremo di oltre il 4 per cento. Mi sembra ovvio. Il rimbalzo della nostra economia è dato da diversi fattori. Quali? Primo, se guardiamo alla storia economica delle crisi causate da una pandemia, come per la Spagnola un secolo fa, vediamo che una volta eliminato il problema sanitario l’economia si riprende rapidamente. Secondo, siamo vedendo che i settori colpiti dalle chiusure, con le riaperture stanno riacquistando quanto perso. Terzo, abbiamo politiche monetarie espansive che stanno immettendo denaro nell’economia e questo aiuta. Tutta questa immissione sta alzando l’inflazione, come vediamo negli Stati Uniti. Rischiamo di andare a sbattere? Beh, certamente in questo anno e mezzo di pandemia stiamo accumulando molto debito, e questo è un problema. Facendo più deficit chiaramente si cresce di più, ma poi il debito rimane. La soluzione è trovare il modo di rendere permanente la crescita, affinché ne lungo periodo il debito accumulato sia sostenibile. La politica si sta confrontando sul tema dello sblocco dei licenziamenti. Che idea si è fatto? Il blocco dei licenziamenti è un problema, anche i sindacati dicono che non può esserci per sempre, perché ingesserebbe l’economia. La questione è trovare il momento opportuno per eliminarlo. La logica dice che se il blocco è stato messo per una situazione di emergenza, nei settore dove non c’è più emergenza si può togliere, come nelle costruzioni e nel manifatturiero. Eliminarlo a fine luglio in questi settori mi sembra una saggia ipotesi. I sindacati mettono in guardia dall’esplosione di una «bomba sociale», mentre Confindustria parla di 100mila posti a rischio. Quali numeri prevede? Innanzitutto bisogna fare una una considerazione, e cioè che in un anno normale si perdono circa 350mila posti di lavoro con i licenziamenti, che vengono compensati dalle assunzioni. È chiaro che togliendo il blocco ci sarà un aumento dei licenziamenti ma dovrebbe essere temporaneo. L’ordine di grandezza potrebbe essere sui 70-100mila posti di lavoro, ma per queste persone ci sono i sussidi di disoccupazione, i lavoratori non vengono lasciati soli e c’è possibilità di essere assunti da altre parti. Cos’è cambiato con l’avvento del governo Draghi? Draghi ha una grande credibilità internazionale, indipendentemente da quello che fa, e ha gestito bene i rapporti con l’Unione europea. Più in generale mi sembra ci sia un atteggiamento più chiaro e lineare nelle nomine e nella velocità con cui vengono prese le decisioni. Ad esempio quelle su Cdp e Ferrovie e le decisioni su Alitalia, Ilva e Autostrade. Lo Stato sta tornando in economia o è solo una conseguenza della pandemia? Che sia una fase in cui lo Stato deve intervenire nell’immediato nella proprietà delle imprese è evidente. Ma dovrebbe essere un intervento temporaneo e il timore è che invece sia permanente. Ma bisognerà vedere chi vincerà le elezioni e cosa vorrà fare con le proprietà acquistate dallo Stato in questo periodo, visto che non sappiamo quanto durerà il governo Draghi. La riforma della giustizia è uno dei punti cardine del Pnrr. Quanto impatta sul nostro sistema economico? La riforma della giustizia è fondamentale, sia dal punto di vista economico ma anche sociale. Vediamo ogni giorno casi di processi che si concludono dopo vent’anni. Un paese non può avere una lentezza di questo genere, perché crea enormi problemi all’economia. La lentezza della giustizia è il secondo disincentivo per le imprese che vogliono investire in Italia, dopo il livello di tassazione. Non crede che i tre gradi di giudizio e di conseguenza una certa giustizia “ragionata” sia importante per garantire i diritti degli imputati? Sì, ma anche adesso ci sono grosse differenze nella durata dei processi a seconda dei tribunali e non è vero che nei tribunali “veloci” non vengono tutelati i diritti. Anzi, la gente è contenta di avere processi che si concludono rapidamente. Lei ha scritto su twitter che «politica e giustizia vanno tenute ben distinte». Può approfondire il discorso oltre i 280 caratteri del social? Io sono presidente del comitato programma per l’Italia sottoscritto da Azione e +Europa e la prima area in cui abbiamo emanato le nostre raccomandazioni è proprio la giustizia. L’idea è che ci debba essere una separazione netta tra giustizia e politica, da realizzare in diversi modi. Ad esempio vietando ai magistrati di candidarsi nel distretto di corte d’appello in cui hanno avuto incarichi, incentivando il reinserimento in un ruolo distinto di quelli che sono già stati in politica e tornano in magistratura e vietando ai magistrati amministrativi e contabili di assumere incarichi extragiudiziali presso ministeri e altri soggetti. Come si inserisce tale questione nel tema dei referendum proposti da Lega e Radicali? Beh, la separazione delle carriere è un’altra delle nostre raccomandazioni. Deve essere garantita l’indipendenza della magistratura, per farlo noi proponiamo di cerare due CSM autonomi e indipendenti, e per evitare la politicizzazione e le correnti proponiamo il voto singolo trasferibile. Sono riforme fondamentali.