In principio, fu Diego Marmo: il pubblico ministero del “venerdì nero della camorra”, la vicenda in cui si vollero impigliare Enzo Tortora e Franco Califano ( tra gli altri, che una moltitudine di altri dimenticati furono, poi, gli assolti). Implacabile, e impagabile, quel suo «ma lo sapete che più cercavamo le prove della sua innocenza, e più emergevano quelle della sua colpevolezza?». Come poi è finita, lo sappiamo bene. Con molti anni di ritardo, intervistato da Il Garantista e ormai in pensione, Marmo riconosce il clamoroso abbaglio. Errore che non può dirsi, propriamente, un errore; per dirla con Manzoni: era un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano. Senza l’intervento di Marco Pannella, dei radicali, di Leonardo Sciascia e pochissimi altri, chissà quando e come quell’errore/ orrore lo si sarebbe visto, riconosciuto. Chissà quando e come si sarebbe visto e riconosciuto lo strame che si faceva di quelle regole ammesse anche da coloro che le trasgredivano; sempre con Manzoni: «È un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può essere forzatamente vittime, ma non autori».

Aveva la vista lunga, il Grande Lombardo; e quanto sono attuali I promessi sposi e La storia della colonna infame, a saperli leggere; soprattutto a volerli leggere.

È poi la volta di Gherardo Colombo, uno dei “moschettieri” del milanese pool di “Mani Pulite”. Con libri, interventi, articoli, da qualche tempo ripensa la funzione della pena, l’amministrare la giustizia, il potere che detiene chi si assume questo compito. Coltiva il benefico tarlo del dubbio. Forse il Colombo di “oggi” albergava anche “ieri”, nel Colombo che indossava la toga del magistrato: il Colombo uno e il Colombo due convivevano. Confesso che allora non ho colto questa dualità. Chissà: forse era una convivenza tormentata, tormentosa. Come nella pirandelliana “Signora Morli una e due” Colombo era scisso: autentico il primo, sincero il secondo. Solo che “ieri”, con la toga sulle spalle, il Colombo di “uno” sovrastava il Colombo “due”; ora che quella toga è dismessa, i ruoli si sono invertiti.

La popolare saggezza ricorda che non è dato il due senza il tre; puntuale ecco il terzo, più villico, ripensamento ( ravvedimento sarebbe dire troppo ardito). Nientemeno che Antonio Di Pietro, il dottor “che c’azzecca? “. Si confida a L’aria che tira d’estate su La7: «Ho fatto l’inchiesta Mani Pulite con cui si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, che era la corruzione e ce n’era tanta, ma anche le idee». Aggiunge: «Ho fatto politica basandola sulla paura e ne ho pagato le conseguenze». Quali conseguenze magari un giorno ci verrà chiarito. Per ora basta quello che ha sillabato: «Ho costruito la mia politica sulla paura delle manette, sul concetto che erano tutti criminali». Frasi dal sen fuggite, nella foga di un intervento? No. Con Paolo Vites de Il Sussidiario, Di Pietro integra il ragionamento; dice di aver fatto il suo dovere di magistrato, «anche l’inchiesta Mani Pulite non la rinnego, rifarei oggi tutto quanto feci allora». Riconosce però che da «quell’inchiesta si è creato un vuoto, non solo un vuoto di figure politiche, ma dell’idea stessa della ricostruzione della politica. L’inchiesta era doverosa, ma chi voleva fare o restare in politica doveva costruire una idea politica. Invece si è cercato il consenso sul piano individuale, sul personalismo. Sono nati i Bossi, i Berlusconi, i Di Pietro, i Salvini, i Renzi. Persone che basano il loro consenso su chi urla più forte. Io sono stato uno di quelli. Ho peccato di personalismo, senza creare un’idea politica».

A questo punto - lo si dice per celia - verrà un giorno in cui anche un Piercamillo Davigo, un Nicola Gratteri, faranno analoghe capriole? No. Tutto fa pensare che quel giorno non verrà; almeno loro manterranno le ben note posizioni di sempre. Per tornare a Di Pietro: «Tra i tanti effetti di Mani Pulite c’è stato anche l’effetto emulazione, sono nati i magistrati dipietristi. È uno dei rischi che la magistratura deve evitare. La magistratura fa lo stesso lavoro che fa il becchino. Il becchino interviene quando c’è il morto, la magistratura deve intervenire quando c’è il reato, la magistratura invece che vuole sapere se c’è il reato è una magistratura pericolosa, perché con le indagini esplorative si crea il delinquente prima che ci siano le prove». Si potrà ricavare, da queste parole, da questi riconoscimenti, motivo per dire: meglio tardi che mai; e aggiungere che il tempo si conferma galantuomo. No. Il detto in questo caso non può e non deve valere quando galantuomini finiscono impigliati, e spesso stritolati, nelle tenaglie della giustizia.

Il problema, che non può essere eluso, il nodo che va sciolto, è che le persone cui viene attribuito il potere di giudicare i propri simili non possono e non devono vivere come potere questo potere. Può apparire paradossale; ma come diceva Sciascia, «la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio». La crisi in cui versa l’amministrazione della giustizia in Italia deriva «principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio».

In mancanza di questo, anche il riconoscimento più sincero e sofferto, è inutile, vano. Una consolazione che nulla consola; un ripensamento che niente mette in discussione.