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In un articolo pubblicato qualche giorno fa sul Robinson di Repubblica , Silvia Ronchey avanza un’interessante ipotesi storiografica. La fine dell’impero romano non andrebbe collocata nella data canonica, ossia nel 476, quando le insegne imperiali d’occidente furono spedite a Costantinopoli dal senato romano, che coltivava il sogno dell’autogoverno.
Lo spostamento proposto è di oltre un millennio e mezzo, per giungere al 1989, ossia alla caduta del muro di Berlino, se non addirittura al 1991, allo scioglimento formale dell’Unione Sovietica. La proposta si basa sulla continuità della “cultura statale romano- bizantina” che venne assicurata dalla seconda Roma, cioè dalla Costantinopoli cristiana e poi da quella ottomana, affiancata in seguito dalla terza Roma, ossia Mosca, nella quale si trasferì la tradizione greco ortodossa, sia religiosa che civile.
Le correnti profonde della storia, incuranti delle onde di superficie, avrebbero attraversato i secoli per infrangersi infine sulle scogliere del collasso sovietico, il quale avrebbe provocato la rinascita di tensioni prima sopite, o almeno governate, dai Balcani, che furono Illiria, ai luoghi che un tempo ebbero i nomi esotici di Sogdiana e Bactriana, il Medio Oriente dove oggi si combattono guerre che coinvolgono istanze politiche, economiche, religiose e culturali vecchie di secoli.
Come tutte le ipotesi di periodizzazione, anche quella avanzata da Silvia Ronchey è affascinante, con la sua campata che attraversa i secoli per riconoscere la presenza costante della cultura imperiale romana nella società euro- asiatica fino al dissesto sovietico. In tutto ciò si riconosce un profumo di solida verità. Fu Augusto del Noce, forse non a caso scomparso anche lui nel 1989, a spiegare alle generazioni immediatamente postbelliche l’importanza dell’impero e dei suoi valori nel sistema politico europeo.
Nelle loro stagioni più felici l’impero romano e poi i suoi epigoni franco, ottomano, asburgico, tedesco e russo seppero garantire una convivenza pacifica tra popoli di lingue, culture, religioni e tradizioni diverse e a volte lontane. Lo fecero così bene che alla loro scomparsa il continente, e non solo la penisola balcanica, si scoprì abitata da gruppi mescolati in maniera quasi inestricabile che condividevano la lingua ma non la religione, la cultura ma non la lingua, la religione e non le tradizioni sociali, in una confusione che ingovernabile e foriera di violenza.
Ci vollero secoli e la mano pesante degli Stati nazionali - con il contributo inatteso ma decisivo dei media moderni allo scopo di completare l’unificazione linguistica – per costruire l’Europa moderna, con la sua suddivisione in entità politiche di modeste dimensioni, fino a qualche decennio orsono dotate di una conflittualità sconosciuta in altre zone del mondo.
Il progetto nazionalista ebbe tale successo che è stato esportato in mezzo mondo, segnatamente in Africa e in Medio- Oriente, con la creazione di stati mai esistiti e oggi in lotta fra loro. Quanto sia stata importante la caduta dell’Unione Sovietica in questo contesto è difficile dirlo. Immaginare che esista una distanza maggiore fra la Russia di Putin e l’URSS di quanta ve ne fu tra il potere stalinista e quello degli zar è questione più soggettiva che misurabile in maniera strumentale.
Forse una data importante da tenere in considerazione per fissare una boa attorno alla quale far girare il corso degli eventi è il 1918, con la scomparsa contemporanea di tutti gli imperi europei e mediorientali: asburgico, tedesco, zarista e ottomano.
Fu la grande affermazione degli Stati nazionali, che avevano appena vinto la Prima guerra mondiale e già si apprestavano a combattere la Seconda, il trionfo della Rivoluzione Francese, che cancellava il ruolo detenuto fino ad allora dalle aristocrazie europee.