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Nessuno tocchi Caino. Anche se ha le sembianze di Cesare Battisti. Anche se ha svenduto il suo Paese attraverso un’immagine caricaturale e semplificata degli anni Settanta. Quel che però oggi mi pare paradossale è che si arrivi a processare anche coloro (pochi in verità, perché ci vuole anche un po’ di intelligenza) che, come Piero Sansonetti, non hanno mai difeso Battisti né creduto alla sua innocenza, ma hanno tenuto fermi i principi del giusto processo e dello Stato di diritto. Negli anni 70 lavoravo a il Manifesto e lì imparai a essere garantista. Cesare Battisti: quando al “manifesto” imparai a essere garantista...
Nessuno tocchi Caino. Anche se ha le sembianze di Cesare Battisti. Anche se ha ucciso e rapinato, anche se si è sottratto alla giustizia gridando di essere il perseguitato politico di un Paese, l’Italia, dove vigeva un regime fascista che opprimeva e incarcerava ingiustamente. Anche se ha svenduto il suo Paese attraverso un’immagine caricaturale e semplificata degli anni Settanta, dei movimenti, del terrorismo e delle leggi speciali che hanno distrutto, molto prima degli anni di Tangentopoli, ogni regola dello Stato di diritto.
Le orecchie che hanno ascoltato, da Fred Vargas a Bernard Henry- Lévi, hanno metabolizzato quella semplificazione, l’hanno tradotta in battaglia di giustizia donando al “condottiero” Battisti una patente di innocenza e di ritrovata verginità. E così è stato per una intera comunità italiana che ha potuto godere della famosa “dottrina Mitterand”, che non concedeva l’estradizione per fatti di terrorismo accusando l’Italia di aver emanato leggi speciali che consentivano processi celebrati in contumacia e spesso fondati solo sulla parola di un collaboratore di giustizia.
Una sorta di doppio binario fu allora l’Italia, perché il terrorismo ci fu e fu feroce, ma fu in gran parte dannoso l’antiterrorismo, che fu feroce nei confronti dei principi di uno Stato liberale. Se il presidente Mitterand e il suo ministro di giustizia Badinter intesero dare una lezione all’Italia su una questione di regole, non si può dire altrettanto di coloro che si fecero megafoni poco attenti della sostanza ( e soprattutto della forma) del problema, trasformando un personaggio come Cesare Battisti prima in una vittima e poi quasi in un eroe. Quanto poco avessero capito non solo dell’Italia ma anche della giustizia quegli intellettuali lo dimostra proprio Fred Vargas che, in un’intervista di questi giorni al Corriere, ammette di non saper molto dei processi ma dice che comunque rifarebbe tutto anche oggi. Pare quasi normale, e speculare, sempre in un ragionamento quanto mai semplificato, che oggi siano così in tanti a gridare “vergogna” e a chiedere autocritiche a coloro che difesero Cesare Battisti, oggi che lui, entrato in carcere dopo quarant’anni di latitanza, ha ammesso di aver compiuto i delitti per cui è stato condannato. Quel che mi pare paradossale è che si arrivi a processare anche coloro ( pochi in verità, perché ci vuole anche un po’ di intelligenza) che, come Piero Sansonetti, non hanno mai difeso Battisti né creduto alla sua innocenza, ma hanno tenuto fermi i principi del giusto processo e dello Stato di diritto.
Negli anni Settanta Piero lavorava all’Unità, io al Manifesto.
Il Pci era durissimo non solo nei confronti del terrorismo, ma anche di qualunque cosa si muovesse alla sua sinistra. Quando nel 1979 scoppiò il caso del famoso processo “7 aprile” noi del Manifesto difendemmo Toni Negri, Oreste Scalzone e gli altri imputati non solo perché li credevamo innocenti ( non sbagliando, vista la serie di assoluzioni), ma anche per la costruzione dell’inchiesta, tutta fondata sui reati associativi. Ma devo ammettere che, proprio come l’Unità attaccava quegli imputati in quanto “nemici”, in fondo noi li difendevamo perché erano anche nostri amici. Il garantismo è arrivato dopo. Nel mio caso aprii gli occhi quando un ragazzino del Msi fece irruzione, da solo e a mani nude, in una sezione del Pci, e tutti gridarono “dagli al fascista”. Un bravo giovane avvocato socialista accettò di difendere i diritti di quel ragazzino, ingenuo e idealista, e io con lui. Poi ci fu la strage di Bologna e l’Unità uscì con una pagina bianca per protesta contro una sentenza non gradita, e il Manifesto pubblicò una lettera della federazione bolognese del Pci che mi definiva “oggettivamente” mandante della strage perché difendevo i diritti di Mambro e Fioravanti. Non cambierei la mia posizione neppure se paradossalmente oggi confessassero. Poi ci fu la mafia, poi tangentopoli. E ancora tutti chiedevano vendetta, non giustizia.
Ogni volta, a quelli come Piero Sansonetti si chiede la premessa: prima di parlare, prima di chiedere il rispetto delle regole devi dire di essere contro il terrorismo, contro la mafia, contro la corruzione eccetera. E devi fare l’autocritica se hai sostenuto che i processi in contumacia ( anche se riguardano Cesare Battisti) quanto meno andrebbero ricelebrati in modo che l’imputato possa difendersi con la presenza del suo corpo nell’aula. E anche che la prova si deve formare nel dibattimento, e che la parola del collaboratore deve essere suffragata da altre conferme. E persino, guarda un po’, che neppure la confessione, da sola, è una prova. Devi fare l’autocritica se hai difeso i diritti di un colpevole.
Non credo sia scandaloso sostenere che la gran parte dei processi per i fatti degli anni Settanta non sia stata celebrata secondo le regole dello Stato di diritto. Non perché siano stati condannati degli innocenti, ma perché si è arrivati alle sentenze con procedure arbitrarie e sregolate, influenzate da stati emotivi che mai avrebbero dovuto entrare nelle aule di giustizia. In questo senso fu giusto criticare l’Italia in quegli anni. Perché, pur in mezzo a tanto sangue e tante tragedie umane, lo Stato non seppe essere Stato di diritto, ma preferì essere autoritario. Sia chiaro che le vittime furono coloro che vennero uccisi, feriti e rapinati. Ma, comunque, è bene ricordarlo sempre, “nessuno tocchi Caino”.