Perché si sono disturbati autorevoli interpreti del codice deontologico e custodi dell’etica per commentare una sentenza che nel condannare un avvocato al risarcimento per aver promosso una causa totalmente infondata ha affermato un principio da sempre cardine dell’ordinamento professionale forense?Già precedentemente alla normazione del 1997, quando vigeva un codice di formazione pretoria, gli organi disciplinari forensi non avevano esitato ad affermare il principio secondo il quale costituiva illecito deontologico consigliare al cliente azioni inutili e gravose.Un comportamento che, all’evidenza, era percepito come contrastante con i doveri di dignità e di decoro (ora così poco apprezzati dall’Agcm) perché ben si sapeva come costituisse palese violazione dei fondamentali canoni professionali il fatto che l’avvocato incrementasse pretestuosamente il contenzioso senz’alcun utilità concreta per la parte assistita o, addirittura, con possibile pregiudizio anche economico della stessa.La norma del nuovo codice deontologico (art. 23) entrata in vigore il 16/12/2014 ha ulteriormente riaffermato principio provvedendo ad eliminare l’avverbio “consapevolmente”, non opportunamente inserito nel testo dell’art. 35 del previgente codice, che censurava il “consapevolmente consigliare” da parte dell’avvocato quasi che fosse possibile darsi un consiglio non consapevole.Ora quindi il divieto è esplicitato chiaramente e con in equivocità di locuzioni: «L’avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose».Tale essendo il contesto perché tanto interesse sulla notizia?La Suprema Corte nella propria pronuncia (n. 9695/2016) altro non ha fatto che ribadire quanto già affermato da risalenti sentenze del Cnf (n. 30/1989 – n. 26/1995) che avevano sanzionato avvocati per «.... violazione dello specifico obbligo di dissuasione del cliente alle azioni gravose e pretestuose» e quindi, nello specifico, non ha formulato interpretazioni innovative essendosi limitata ad inserirsi nel solco della precedente ed a riaffermare quanto già costituiva patrimonio acquisito.Non si può quindi che concordare se la Cassazione ha voluto confermare la rilevanza ora, scolpita nella nuova legge professionale, della figura di un avvocato professionista consapevole del proprio ruolo che non può e non vuole sottrarsi ai doveri che gli fanno carico non solo nei confronti del cliente ma anche nei confronti dell’ordinamento nel rispetto di quegli obblighi di completa informazione e di trasparenza che, solo se adempiuti pienamente, consentono di svolgere correttamente il ruolo difensivo.Ben diverse considerazioni dovrebbero invece essere svolte qualora ivi si annidassero i presupposti per un indirizzo giurisprudenziale, inopinatamente prodromico ad una deriva interpretativa suscettibile di ampliare indiscriminatamente il novero delle ipotesi di responsabilità professionale. Questo perché verrebbe privato di significato quel condivisibile invito alla prudenza, espresso nella sentenza nell’interesse di entrambe le parti del contratto d’opera, che consente all’avvocatura di avere una duplice opportunità: da un lato quella di rivendicare con orgoglio non autoreferenziale l’affermazione del principio da epoca non sospetta (la sanzione per tale violazione può arrivare ora alla sospensione sino ad un anno) e dall’altro di non dimenticare che l’obbligo di informazione, ampio e preciso ed auspicabilmente documentato, adempie alla funzione di tutelare il professionista dal rischio di divenire il facile capro espiatorio di esiti processuali determinati anche da carenze probatorie a lui non ascrivibili.Va ricordato infatti che il Giudice di legittimità nella sentenza 9695/2016 ha ritenuto corretta la decisione della Corte d’Appello di considerare necessaria, ai fini liberatori per l’avvocato, non la prova del consapevole consenso della parte assistita all’avvio della causa quanto piuttosto quella, a quanto emerge non offerta, dell’irremovibile iniziativa (determinazione) della suddetta ad agire giudizialmente di talchè l’avvocato sarebbe andato esente da responsabilità esclusivamente ove fosse stata adeguatamente provata la sua azione dissuasiva.In buona sostanza: quanto più problematica è la fattispecie quanto più l’informazione deve essere ampia e minuziosa (per iscritto...) per consentire alla parte assistita quella “consapevole irremovibilità” che potrà anche portare ad esiti negativi ma che non dovrà consentire di farne ricadere la colpa esclusivamente sull’avvocato.Quanto sopra ovviamente presuppone un’attenta valutazione della prove acquisite in ordine alla formazione del “consenso” ed all’adempimento dell’onere di dissuasione perché, ove accertate tali circostanze, il Giudice non potrà che arrestarsi per non snaturare totalmente le caratteristiche del contratto d’opera intellettuale.L’obbligazione dell’avvocato rimane di mezzi e la sua responsabilità potrà anche derivare dall’adozione di mezzi difensivi i quali, ancorchè concordati e condivisi con la parte assistita, risultino pregiudizievoli ma, qualora le difficoltà tecniche della linea da seguire siano state adeguatamente rappresentate anche con una fattiva opera di dissuasione, affermarne la responsabilità, - magari invocando non propriamente il principio espresso nella citata sentenza 9695/16 -, introdurrebbe una pericolosa deriva interpretativa tale da far ricadere comunque sull’avvocato gli esiti negativi di azioni giudiziali non fondate sulla consolidata giurisprudenza.Il che, ovviamente, non può essere se non si voglia privare totalmente di effettività l’azione a tutela dei diritti.D’altronde, lo abbiamo constatato più volte ed anche recentemente, l’affermazione di nuovi diritti non avviene mai grazie ad un attento legislatore che, alzandosi alla mattina, si accorge che vi sono nuovi diritti da tutelare ma a seguito di elaborazione e di dibattito per poi, ineluttabilmente e quasi esclusivamente, sfociare in pronunce giurisprudenziali che, non a caso, seguono all’azione giudiziale iniziata da un avvocato assuntosi consapevolmente la responsabilità ed il rischio di tutelare un diritto violato sino ad allora misconosciuto.