“Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, così recita l’articolo 112 della Carta costituzionale. Come noto, il nostro ordinamento richiede che l’Ufficio di Procura si attivi ogniqualvolta vi sia una notizia di reato, non potendo – come accade ad esempio nel sistema statunitense – far uso di scelte meramente discrezionali. Non a caso il Codice di rito parla di “richiesta di archiviazione” e non già di “archiviazione”; assetto che rispecchia il dualismo della magistratura: l’inquirente chiede, il giudicante provvede. Siffatta impostazione risponde ad altri principi del dettato costituzionale: l’uguaglianza di fronte alla legge e il principio di legalità. Vi sono poi anche ragioni di opportunità che hanno spinto i Padri costituenti ad adottare tale impostazione, in primis il timore che la magistratura potesse venire influenzata dal potere politico. L’obbligatorietà dell’azione penale è uno dei più controversi e discussi principi. Infatti, se tale impostazione può ritenersi in astratto perfetta, in concreto incontra evidenti limiti. In altre parole, la velleità costituzionale di perseguire ogni notizia di reato che risulti fondata, inevitabilmente si scontra con l’endemica carenza di strutture ed organico che caratterizza gli Uffici giudiziari italiani. Questa evidenza ha fatto sì che già dagli anni ’90 talune Procure iniziassero a adottare dei criteri volti a dare priorità a determinate fattispecie di reato. Tale prassi venne poi positivizzata con il d.lgs.106/2006, il quale ha riorganizzato le Procure e la distribuzione delle loro risorse. La stessa Procura del Foro di chi scrive, Torino, è stata in ciò “maestra”, adottando criteri di priorità volti a dare maggior rilievo alla repressione di determinati reati piuttosto che ad altri e rendendo tale scala delle fattispecie più rilevanti pubblica e visibile. Non si fecero attendere, e non si fanno attendere tutt’ora, le voci di coloro che ritengono simili criteri di priorità di fatto lesivi del principio di uguaglianza dinanzi alla legge, nonché dell’obbligatorietà dell’azione penale. Pur comprendendone la ratio, va rilevato che detti criteri (che oggi trovano concretizzazione nei cosiddetti programmi delle attività annuali che le singole Procure elaborano ai sensi dell’articolo 4 D.L. 240/2006) non impongono che determinati reati non vengano perseguiti, bensì ne postergano la persecuzione per ragioni di economicità. Pertanto, almeno formalmente, il principio ex art. 112 Cost. viene certamente rispettato. Per ordine di completezza va comunque evidenziato che talvolta simile impostazione può, nella sostanza, portare ad eludere l’assetto: infatti, postergare la persecuzione di una fattispecie illecita significa che questa molto probabilmente si estinguerà per l’intervento della prescrizione. Successivamente, intervenne il D.L. 6 luglio 2011, n. 98 – convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111 – il cui art. 37 è oggetto di modifica nel recente disegno di legge AC 2681 su cui si è ora ulteriormente sovrapposto il maxiemendamento Cartabia. Ma procediamo con ordine.1) Il disegno di legge a` firma del ministro Bonafede, con l’introduzione della lettera b-bis all’art. 37 del succitato decreto, disponeva che – con riferimento al settore penale – i criteri di priorità venissero determinati dal capo dell’Ufficio giudiziario, sentito il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, e che il Csm redigesse detti criteri, sempre secondo gli indirizzi forniti dal Parlamento ai sensi della Legge 27 settembre 2021, n. 134, art.1, comma 9, lett. i).2) Il maxiemendamento a firma Cartabia, invece, intende sopprimere la lett. b-bis del citato articolo, di fatto escludendo il Csm da quell’attività di scelta, ovvero apprezzamento ed indirizzo, dei criteri di priorità delle singole Procure. Diverse le voci che criticano aspramente la modifica. Sul punto è meritevole di essere menzionato quanto riportato dal già Procuratore Capo di Torino Armando Spataro, il quale – in un’audizione del 3 marzo in commissione Giustizia – giustamente ravvisa la seguente criticità a cui, il sottoscritto, non può che dare credito. Se si ammette che sia il solo Parlamento a definire gli indirizzi di politica criminale che tutte le Procure debbono perseguire, di fatto, si sta andando a creare una pericolosa commistione tra il potere politico e quello giudiziario. La modifica recentemente paventata non può accogliersi. Si ricorda che il Parlamento che fornisce criteri di indirizzo per le Procure è quello stesso Parlamento che a distanza di due anni o meno depenalizza una norma per poi “ripenalizzarla” per meri scopi propagandistici. Un vaglio del singolo Procuratore della Repubblica, nonché del Csm, nel parere di chi scrive, è un atto essenziale che deve esser mantenuto: il primo in quanto gode della necessaria conoscenza del contesto nel quale opera e può dunque indirizzare le scelte di programma dando attenzione a quei reati che necessitano di una maggiore repressione in ordine a quello specifico territorio, il secondo in quanto è organo di autogoverno che certamente potrebbe fungere da bilancia nei confronti degli indirizzi forniti dal Parlamento. Il tema risulta quanto mai complesso e difficilmente trattabile in ogni suo aspetto se non tramite una profonda analisi dei possibili scenari futuri. Tuttavia, volendo compendiare a chiosa, le modifiche adottate dal maxiemendamento a firma Cartabia, rischiano - senza dubbio alcuno - di creare un, seppur indiretto, controllo sulle Procure da parte del Legislatore, il quale, oltre tutto, nel sistema politico attuale è soggetto ad un controllo sempre più stringente dell’Esecutivo. Questo produrrebbe derive rischiose che sono da evitare. Pertanto, al fine di scongiurare qualsivoglia influenza politica, si auspica che si ripristini la precedente lett. b-bis dell’art. 37 L. 111/2011 oppure che si prevedano dei correttivi a presidio degli equilibri e della terzierà delle Procure. (*AVVOCATO, DIRETTORE ISPEG)