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Il principio di rieducazione della pena e il fine- pena- mai possono stare nello stesso pantheon di valori? È una singolare coincidenza degli opposti, che farebbe rizzare il naso perfino al suo inventore, Nicola Cusano. Se il filosofo neoplatonico la colloca nell’infinità di Dio, Walter Verini la cerca nella giustizia terrena, professando al tempo stesso un carcere che redime e uno che annienta. Nell’ambigua subalternità ai Cinquestelle e al partito dell’antimafia, il deputato del Pd compie il miracolo degli estremi che si toccano.
In un’intervista al Dubbio plaude contemporaneamente a una detenzione finalizzata al reinserimento, e a un ergastolo ostativo che diventa, con la riforma dai lui benedetta, un’enorme fossa comune dove gettare senza pietà un popolo di morti viventi. Verini è il simbolo del fariseismo di partiti capaci di qualunque torsione. Anche di quella che presenta come un giusto compromesso una capitolazione all’egemonia forcaiola. Perché non c’è da dubitare che il guardasigilli ombra del Pd sappia bene quanto degradante, inumano e contrario alla Costituzione sia un regime carcerario che coincida con una pena di morte a lenta esecuzione. E sappia altresì che questa sorte in Italia non è riservata, come una vulgata menzognera vorrebbe far credere, solo ai capi mafiosi, che sono meno di trecento. Ma a 1250 detenuti sui circa 1800 ergastolani, cioè due su tre.
Il detenuto all’ergastolo ostativo non vedrà mai la luce del sole perché, al momento dell’arresto, non si è pentito e non ha fornito delazioni che il pm ritenesse, a suo insindacabile giudizio, utili alle indagini. Poco conta che si sia dissociato dai vincoli criminali, che abbia tenuto una buona condotta in carcere, che abbia compiuto un percorso sincero di redenzione, che magari abbia preso a studiare e che abbia rifondato il suo universo morale. Poco conta che sia un uomo del tutto diverso da quello che si è macchiato del crimine per cui è stato condannato. Se ha scelto di non accusare nessuno, magari per non esporre la propria famiglia a una vendetta trasversale, non avrà scampo.
La Consulta ha dato un anno di tempo al Parlamento per modificare questo insano istituto, salvaguardando le esigenze della sicurezza. Altrimenti, ha detto, intervengo io. E la politica è riuscita nell’impresa di cambiare l’ergastolo per renderlo più ultimativo, più irredimibile, più inumano, piegandosi alle pressioni di quella corporativa concrezione di poteri che è diventata l’Antimafia. Nella cui commissione parlamentare si è svolto, senza che nessuno ne avesse chiesto un parere, un esame della legge parallelo a quello che si teneva in commissione Giustizia. Dal pulpito delle loro audizioni, in perfetta consonanza, alcuni procuratori militanti hanno lanciato il loro anatema al sistema politico, avvisandolo che dismettere l’ergastolo ostativo avrebbe significato fare il gioco della mafia. Capite che quest’ultimo avvertimento avrebbe messo chiunque con le spalle al muro. L’ex procuratore Giancarlo Caselli l’ha mosso perfino alla Corte Costituzionale, criticata per aver chiesto alla politica di abolire l’automatismo per cui chi non collabora con il pm muore dietro le sbarre. E l’ha mosso al Parlamento, a cui ha chiesto di non arretrare di un centimetro rispetto al rigore di questa norma.
Sapete che ha fatto il Parlamento? Anziché arretrare, è avanzato. La sintesi a cui sono approdati i partiti è una controriforma. Che per prima cosa porta da ventisei a trent’anni il termine per beneficiare della liberazione condizionale. È una misura di pura propaganda, del tutto inutile per limitare la scarcerazione degli ergastolani mafiosi, la maggior parte dei quali ha già superato i tre decenni di carcere. In secondo luogo cancella la cosiddetta collaborazione inesigibile, che la Consulta aveva indicato quale condizione per accedere alla liberazione anticipata. Chi non può collaborare con la giustizia, perché i fatti e le responsabilità sono stati tutti accertati, o perché ha avuto un ruolo marginale nell’organizzazione criminale, viene considerato al pari di colui che sceglie di non collaborare. A entrambi viene richiesta una prova diabolica: dimostrare, contro il parere delle Procure, l’esclusione di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso. Alla lettera vuol dire che, quand’anche il detenuto riuscisse a convincere il tribunale di sorveglianza, la cui decisione diventa collegiale, che non esiste nessun pericolo di recidiva, sarà per lui impossibile godere della scarcerazione e, prima ancora, dei permessi premio nei territori di provenienza. Ma non finisce qui. La norma impone all’ergastolano che voglia ottenere i benefici di aver adempiuto agli obblighi civili e di riparazione pecuniaria, favorendo in tal modo chi è dotato di risorse materiali che nulla hanno a che fare con il percorso di rieducazione. Qui la legge impropriamente richiama la giustizia riparativa, per la quale la rinuncia delle vittime del reato ad accettare la riparazione comporterebbe il rifiuto del tribunale alla scarcerazione o ai permessi premio per il detenuto.
Il radicalismo antimafioso sembra vagheggiare una costituzione tutta sua, che però contrasta con il costituzionalismo italiano ed europeo, ammonisce uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale in Italia, Giovanni Fiandaca. Ma nessuna tra le forze politiche dimostra di preoccuparsene. Per compiacenza, per indifferenza, o per paura. Così la battaglia dei magistrati militanti assume la forma di una crociata, e come tutte le guerre di religione è condotta con ogni mezzo. Il pm Nino Di Matteo lancia una fatwa contro il nuovo capo del Dap, Carlo Renoldi, un magistrato di sorveglianza che considera il carcere un luogo di rieducazione e non di tortura. I Cinquestelle e la stampa di complemento gli vanno dietro con una campagna di denigrazione. Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, attacca in tv e nelle piazze la guardasigilli, accusandola di disarmare la lotta alla mafia e definendo “devastante” la sua riforma.
Con l’inasprimento dell’ergastolo ostativo la rivoluzione costituente diventa una sfida aperta alla Consulta. Si compie trasformando la pena rieducativa in una pena di morte mascherata. Con la foglia di fico di una norma transitoria, osteggiata peraltro dai Cinquestelle, che dovrebbe tutelare i diritti acquisiti dai detenuti, ma che in realtà è un tentativo di sottrarre la legge al prevedibile giudizio di censura costituzionale. È singolare che su quest’esito, pronto ad approdare in aula dopo il prevedibile sì in commissione, convergano tutti i partiti, compresi Italia Viva e Forza Italia, cioè le forze politiche più sensibili alla difesa dei diritti e delle garanzie. Con due sole eccezioni, rappresentate dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio, che ha conosciuto sulla sua pelle la spregiudicatezza della magistratura calabrese, salvo poi essere prosciolta dalle accuse di corruzione, e la deputata di Italia Viva Lucia Annibali, vittima di una brutale aggressione con l’acido che non le ha tolto l’umanità e il senso della misura.
Lo Stato di diritto sta nelle mani di queste due donne illuminate e coraggiose, che combattono da sole contro un esercito di giustizialisti. Compiaciuti, come chi getta volentieri la Costituzione insieme con le chiavi della cella. Inconsapevoli, come chi ignora gli usi e i soprusi che, in nome della lotta alla mafia, possono compiere i professionisti del bene. Intermittenti, come chi vede la violenza della giustizia solo quando tocca la politica. Subalterni, come chi fa buon viso a cattivo gioco, per un interesse di parte. È quest’ultimo il caso di Verini e del suo Pd, pronti a barattare la solidarietà per un pugno di voti. E a infliggere a un ragazzo - tra gli ergastolani non mancano condannati ancora diciottenni una pena perpetua, fingendo di ignorare quali condizionamenti ambientali e quali tragiche disuguaglianze incidano sulle traiettorie devianti della gioventù.
Chissà se Verini ha pensato che per questi condannati è una fortuna che l’aspettativa di vita dietro le sbarre sia più breve rispetto al mondo dei liberi, perché altrimenti il sollievo della morte del corpo arriverà dopo cinquanta o sessanta anni. O se invece ha ceduto alla dissimulazione di un pensiero securitario: fare del carcere il luogo dove simbolicamente confiniamo tutto il male del mondo, per non vederlo più.