Dopo aver letto l’intervista che il presidente della Associazione Magistrati, Francesco Minisci, ha rilasciato al Corriere della Sera, prima mi son sentito prendere come da una vertigine - che mio malgrado mi immergeva in un vortice di nebulosa incomunicabilità - ma poi, ripresomi, mi son ricordato delle parole dei vecchi giuristi – Carnelutti, Satta, Calamandrei – i quali tutti concordavano sul fatto che il processo penale non si fa contro l’imputato, ma a suo favore: e ne viene che il giudice non è “in lotta” contro nulla e nessuno. Neppure contro la corruzione.

In altre parole, il processo ha un compito preciso: sottoporre ad una vera prova di resistenza le accuse mosse all’imputato. Se la prova sarà superata, egli sarà condannato, altrimenti sarà assolto. Ecco in quale cornice concettuale va inquadrata e compresa la presunzione di non colpevolezza.

Tuttavia, quelle parole oggi suonano vuote e come seppellite dal tempo, di fronte alle proposte avanzate da Minisci per meglio combattere la corruzione.

Nell’ordine: introdurre il Daspo preventivo anche in sede di indagini; estendere il Daspo anche alle imprese per cui lavorava il corrotto; allargare la possibilità delle collaborazioni premiate dalla legge, anche con revoca del Daspo; bloccare la prescrizione definitivamente dopo la sentenza di condanna di primo grado; consentire il mutamento del giudice nel dibattimento, senza dover cominciare da capo; abolire il divieto di aumentare la pena nel caso di appello dell’imputato.

Una osservazione generale e alcune particolari.

In generale, Minisci sembra dimenticare che le persone di cui lui parla, in quasi tutti i casi accennati, sono soltanto degli imputati e non dei condannati, per cui dovendo ritenersi non colpevoli vanno tutelati nei loro diritti processuali.

In particolare. Il Daspo preventivo appare non necessario, in quanto la legge sugli appalti già esclude chi abbia pendenze penali di tipo corruttivo; colpire col Daspo le imprese è parimenti inutile, perché basterebbe mutare la ragione sociale dell’impresa per evitarlo; estendere il pentitismo, bloccare la prescrizione, abolire il divieto di “reformatio in peius” sembrano misure del tutto estranee ai principi minimi dello Stato di diritto; infine, far mutare il giudice nel corso del dibattimento come nulla fosse, significa calpestarne il delicatissimo ruolo di dispensatore delle ragioni del giusto e dell’ingiusto, facendone quasi una comparsa processuale priva di autonomo significato.

Dell’unico rimedio reale contro la corruzione – la lotta effettiva alla burocrazia – inutilmente riproposto da Cantone, Minisci invece tace.

Che Minisci non abbia riflettuto abbastanza prima di fare queste dichiarazioni?

O che forse abbia troppo riflettuto? Non lo so. Ciò che invece pare è che egli non sembra aver abbastanza coltivato quel sano timore di giudicare – sul quale ammonisce S. Paolo scrivendo ai Romani - e che invita a ritenersi legittimati a giudicare gli altri, solo dopo aver condannato se stessi.

Ecco, se tutti noi, prima di giudicare gli altri, ci fermassimo un momento a riflettere sulla necessità di condannare prima noi stessi, forse non sarebbe male. Spero lo faccia, prima o poi, anche Minisci.