Nel nome di Marco Pannella, delle sue battaglie di una vita, perché il carcere sia un luogo non solo di espiazione della pena ma anche di riammissione alla società, uno strumento non di mera punizione ma anche di rinnovamento, un percorso in cui il detenuto rinuncia alla libertà ma mai alla dignità di uomo, il senatore Luigi Manconi ha proposto «un disegno di legge costituzionale, che preveda di riportare alla maggioranza della metà più uno dei componenti le due Camere, il quorum necessario all’approvazione di provvedimenti di amnistia e/o di indulto». Si tratta di misure previste dalla Costituzione la cui finalità è di controllo politico e di pacificazione sociale.Amnistia è cancellazione del reato. Oblio, restituzione. Un atto di clemenza a volte del tutto necessitato quando, come oggi accade, la carcerazione è biecamente afflittiva e vessatoria, avviene in luoghi inidonei e asfittici, in condizioni inumane e degradanti e manca di offrire alla persona ristretta qualsivoglia aspirazione di reinserimento nel tessuto sociale.Forse, «nella migliore delle ipotesi», gli epigoni di Pannella non sanno (non sappiamo) cosa dicono, come vorrebbe il dott. Bruno Tinti (Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2016), però alcune considerazioni sono inevitabili anche nel nome di Marco Pannella e della sua storia politica di mentore luminoso e inarrestabile di legalità.E se è una contraddizione in termini definire - come fa il dott. Tinti - «criminogeno» uno strumento previsto dalla Costituzione, non lo è, invece ribadire un concetto espresso dal ministro Andrea Orlando alla vigilia degli Stati Generali dell’esecuzione penale: l’improcrastinabile urgenza di dare attuazione all’art. 27 della Costituzione, una norma di programma mai compiutamente attuata, e di rendere il carcere - ancora un luogo carcerogeno che si traduce troppo spesso in una spinta alla recidiva - un momento costruttivo verso un concreto percorso di reinserimento del detenuto nella società civile.L’amnistia, nella sua natura di provvedimento eccezionale, allora, può e deve intervenire a sanare una perdurante situazione di illegalità. Un imperativo - questo sì - morale, dettato da una considerazione primaria: in carcere ci sono delle persone.L’osservazione statistica del dato della recidiva in seguito a provvedimenti di clemenza, del resto, ha dimostrato come il tasso recidivante si abbatta di oltre il 30% rispetto alle persone detenute che escono dal carcere a pena espiata. Il dato potrebbe già rassicurare le pance dolenti e le spinte securitarie e forcaiole. Va detto anche, però, che in caso di amnistia molti processi non sarebbero celebrati con un’evidente riduzione dei costi dell’amministrazione della giustizia. E, ancora, che il provvedimento di clemenza non si estenderebbe ovviamente ai reati ad esso successivi per cui nessuna spinta a delinquere la sua approvazione potrebbe comportare.Ma il perno della questione resta un altro. In carcere si continua a morire. Le persone si suicidano non, o non solo, perché stanno troppo strette. Il sovraffollamento è solo uno dei drammi delle nostre prigioni che non possono essere scatole di cemento dove chiudere persone indesiderate. L’edilizia carceraria non può risolvere una patologia strutturale da cui quasi tutti i nostri istituti di pena sono affetti. Il personale di polizia penitenziaria è ridotto all’osso, così quello di educatori, di psicologi e di altre figure indispensabili al trattamento intramurario. Gli uffici dei tribunali di sorveglianza sono al collasso per mancanza di fondi e di risorse umane e non riescono quasi mai a garantire tempi rapidi di definizione delle istanze dei detenuti. I giudici di sorveglianza sono figure molto spesso assenti seppur inutilmente invocate dai ristretti. Le opportunità trattamentali sono quasi sempre inconsistenti ed inadeguate cosicché il carcere è mera reclusione, repressione, punizione, mutilazione del fare e dell’essere. Prima di costruire nuove carceri, magari come quelle di Massama, a Oristano, o di Bachiddu, a Sassari, dove non c’è null’altro che la coercizione, forse sarebbe opportuno e, ancora una volta, "morale" dotare quelle esistenti della possibilità, in concreto, di garantire alle persone recluse una condizione dignitosa di vita ed una effettiva aspirazione di recupero.