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NUNZIA DE GIROLAMO
*Livia Rossi, Tesoriere della Camera Penale di Roma Sono rimasta colpita, ma non sorpresa, da un’intervista in cui Nunzia Di Girolamo afferma che nonostante si ritenga una “convinta garantista” quando si tratta di violenza su donne e bambini “il garantismo non va bene più, occorrono sentenze dure ed esemplari perché il rischio è che altrimenti le donne vittime di violenze non denuncino”. Non sono sorpresa perché si tratta di espressione tipica delle emozioni di piazza dinanzi ad una determinata tipologia di accadimenti. Sono tuttavia colpita perché, in questo caso, l’esternazione proviene da persona che, oltre ad essere una ex parlamentare, si è spesso occupata dei temi della giustizia definendosi, appunto, “garantista”. Credo che sia necessario innanzitutto intendersi sull’effettivo significato delle parole. “Garantismo” è un concetto che, nell’immaginario collettivo, viene spesso confuso con “buonismo” o comunque con un qualcosa che sottrarrebbe il colpevole dall’accertamento “senza tentennamenti” delle sue responsabilità e dalla “certezza della pena”. Nulla di più sbagliato. Si tratta infatti di un principio dello stato di diritto che si concretizza nell’esistenza di un insieme di garanzie costituzionali finalizzate a tutelare le fondamentali libertà dei cittadini nei confronti del potere giudiziario. È espressione di democrazia, propria di uno Stato autorevole che amministra giustizia secondo le regole di un giusto processo ed arriva all’irrogazione di una sanzione adeguata al disvalore del comportamento accertato. Si tratta quindi dell’unico modello di giustizia penale previsto dalla nostra Costituzione, che non accoglie un’idea di processo intesa come strumento di contrasto a fenomeni sociali. Il processo è e deve essere tecnico, finalizzato ad accertare le responsabilità di un fatto – reato. La componente emotiva/etica deve rimanere fuori dalle aule di giustizia. Il processo “etico”, celebrato “senza tentennamenti”, che soddisfi le aspettative dell’opinione pubblica prima ancora di quelle della vittima, che si concluda con una condanna “esemplare”, espressione di vendetta più che di giustizia, è infatti tipico dei regimi totalitari. “Puniscine uno per educarne cento” lo diceva nel 1949, non a caso, un dittatore del rango di Mao -Tse Tung. E ad analoga politica punitiva si sono ispirate le azioni criminali delle Brigate Rosse negli anni ’70. Il garantismo non può quindi essere inteso a corrente alternata, semplicemente in base all’odiosità della soggettiva percezione del reato, perché così facendo si traduce inevitabilmente nel suo opposto principio, quello del giustizialismo, legato ad un’idea in cui, in sostanza, il fine giustifica i mezzi. La particolare gravità del reato, considerate le ripercussioni negative – spesso anche a livello mediatico – che la vicenda processuale già di per sé provoca all’imputato, dovrebbe, al contrario, indurre al rispetto ancor più rigoroso del principio di non colpevolezza previsto (per tutti i reati) dall’art. 27 della Costituzione. Tornando alle parole dell’ex parlamentare Di Girolamo, nel caso di reati di violenza sulle donne il garantismo dovrebbe fare un passo indietro “perché altrimenti le vittime non denunciano e soltanto la certezza che i responsabili vengano condannati in maniera esemplare può aiutarle”. Ovvero la negazione del giusto processo e del principio di non colpevolezza, oltre che una visione parziale e miope del problema. Così ragionando, infatti, si profila un diverso insidiosissimo rischio, quello della possibile strumentalizzazione del processo penale. Un giudizio celebrato “con la certezza che i responsabili vengano condannati” , senza l’osservanza delle garanzie previste dalla legge e senza l’attenzione che la ricostruzione di tale tipologia di fatti richiede, darebbe il via libera al ricorso all’iniziativa penale in una pluralità di casi potenzialmente finalizzati ad obiettivi diversi da quelli che il processo deve perseguire (si pensi solo alle possibili strumentalizzazioni nell’ambito della conflittualità di talune separazioni giudiziali). Il problema è culturale, su questo concordo con Nunzia Di Girolamo, ma lo si deve affrontare puntando sulla prevenzione. La storia, anche recente, insegna infatti che l’inasprimento delle pene – anch’esso invocato dall’ex parlamentare – non ha alcun potere deterrente.