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La guerra in Medio Oriente sta avendo dirette ripercussioni anche in Europa. I fenomeni di antisemitismo sono la preoccupante spia di una società che si è incattivita ulteriormente con il confitto nella Striscia di Gaza. Proprio dall’antisemitismo parte la filosofa Donatella Di Cesare per riflettere su quanto avviene a poca distanza da noi.
Professoressa Di Cesare, con la guerra tra Israele e Hamas si sono verificati molti episodi di antisemitismo. C’è da preoccuparsi?
Secondo me, sì. Ma dobbiamo partire, prima di tutto, da una premessa. Sul termine antisemitismo ci sarebbe molto da discutere, perché è un termine antiquato. Quando è stato coniato era già fuorviante. Ecco perché io preferisco parlare di odio antiebraico. Purtroppo, sappiamo bene che anche dopo la Shoah, dopo lo sterminio perpetrato durante il nazionalsocialismo, anche dopo il 1945, l’odio nei confronti degli ebrei non è mai venuto meno. Quando io parlo di odio non intendo nulla di personale, ma mi riferisco ad un odio che ha una sua base molteplice: religiosa, politica ed etica. Questo odio non si è mai arrestato e se andiamo a vedere, già negli anni Sessanta, in riferimento alla guerra del 1967, è riemerso. Evidentemente, oggi assistiamo ad una ondata di odio antiebraico in Europa e persino negli Stati Uniti.
In questi giorni c’è stata un’iniziativa da parti di alcuni professori universitari che ha provocato non poche polemiche…
Non mi aspettavo che l’ondata di odio assumesse certe dimensioni. Addirittura, si sostiene, mi riferisco all’appello che trovo ripugnante dei 4 mila accademici, che l’occupazione risale a 75 anni fa. Una iniziativa in cui si dà per ovvia la delegittimazione di Israele. Secondo alcuni, Israele è abusivo e sta dove non dovrebbe stare. Questo mi pare un punto fondamentale delle nostre riflessioni. Io l’ho scritto anche per la Treccani: l’antisionismo è una delle forme attuali dell’antisemitismo. Quelli che sostengono che l’antisionismo non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo o sono in malafede o sbagliano.
Stiamo assistendo anche ad una divisione tra gli intellettuali?
Nell’accademia ci sono sempre delle contrapposizioni e sono benvenute. Rispetto all’appello dei 4 mila è stato realizzato un controappello contro il boicottaggio delle università israeliane. Questo documento, non appena è stato pubblicato, ha subito ottenuto moltissime adesioni da parte anche di accademici italiani. Il boicottaggio delle università israeliane è insensato. Si fa il contrario di quanto dovremmo assistere nelle università. Anziché vedere nella cultura un modo per creare ponti, qualcuno pensa di abbatterli. Qualcuno pensa di abbattere i ponti con le università israeliane, dove lavorano, studiano e pensano persone che sono molto critiche nei confronti di Natanyahu.
Negli anni passati, dopo gli attentati di Parigi contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, in tanti hanno espresso indignazione e hanno usato l’espressione “ Je suis Charlie”. Con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, pochi hanno detto “Io sto con Israele”. Cosa ne pensa?
Il 7 e l’8 ottobre scorsi non erano ancora chiare l’entità e le modalità degli attentati. Nel giro di alcuni giorni sono emerse le mostruosità che rievocavano il passato, lo sterminio. Inizialmente, c’è stata una reazione sentita da parte dell’opinione pubblica. Questa reazione, però, nel giro di poco tempo, si è molto affievolita, perché da una parte, purtroppo, Israele è stato fatto conoscere negli ultimi anni attraverso il volto del primo ministro Benjamin Netanyahu. Una presenza che non ha giovato a Israele. Dall’altra parte influisce la considerazione secondo cui Israele è uno Stato paria. Uno Stato non considerato come gli altri e che è perennemente sotto accusa. Nel momento in cui c’è stata una minima reazione, a quel punto si sono invertite le parti. Le vittime sono diventate di nuovo i carnefici. Questo gioco dell’inversione delle parti viene realizzato nei confronti degli ebrei già dal 1945.
I nostri media, rispetto ai fatti del Medio Oriente, hanno creato, come già avvenuto in passato, delle tifoserie. È una trappola in cui cadiamo spesso?
Purtroppo, sì. La trappola della tifoseria esiste. Spiace dirlo, ma manca quell’approfondimento, quella zona grigia, quel bianco-nero che permetterebbe di superare le tifoserie. Un approccio che consentirebbe di andare oltre l’emotività immediata e che consentirebbe di riflettere, analizzare e considerare con lucidità gli eventi. Questo, secondo me, è un grosso limite dell’informazione in Italia, che ci distingue dagli altri Paesi. Badiamo bene, però, le ragioni e i torti sono sempre distribuiti.
L’esercito israeliano è entrato a Gaza. Come vede il futuro prossimo di quella parte del Medio Oriente? Potranno essere ricostruiti dei rapporti di convivenza tra palestinesi e israeliani?
Si deve distinguere il piano militare- tattico dal piano politico-strategico. Il timore è che questo intervento militare, anche se non conosco alcuni particolari, come l’entità dei tunnel di Hamas, debba porre questioni politiche e strategiche nel futuro. La grande questione è quella della convivenza tra i due popoli; è come superare quelle barriere che l’odio e la guerra hanno innalzato con grande esasperazione. Però, su questo punto, io sono molto pessimista. Non credo che si possa sradicare Hamas militarmente. Si potrà depotenziare la sua forza militare, ma i motivi politici per cui Hamas ha avuto un ruolo e costituisce un punto di riferimento resteranno. Lo sradicamento è ben diverso e, a mio avviso, sarà un grande problema per il futuro.
Come valuta la posizione italiana nel conflitto mediorientale?
È simile a quella di altri Stati europei. È una posizione di chi si muove tra imbarazzo e difficile neutralità. Mi sarei inoltre aspettata, come credo come molti altri italiani, un ruolo più decisivo dell’Europa, il Medio Oriente è per noi il “Vicino Oriente”. Israele è vicinissimo, così come la Palestina, da tutti i punti di vista. Noi siamo coinvolti e toccati da quello che sta accadendo. È sconfortante invece constatare la passività dell’Europa, ma soprattutto la disgregazione. Assistiamo all’incapacità dei Paesi europei di coordinarsi e trovare una linea unica con un ruolo più dirompente.
Altro che Unione Europea, dunque?
Lo abbiamo già visto a proposito della guerra in Ucraina. In questi ultimi due anni stiamo assistendo impotenti ad una sorta di disgregazione dell’Europa e non sappiamo se è un processo irreversibile.