Se ne fa un gran parlare, non solo da parte degli ingegneri unici veri competenti: internet, lavoro a domicilio, smart working, convegni e lezioni a distanza, fibre ottiche e quant’altro. La nuova tecnologia ( IT) ha già rivoluzionato la nostra vita quotidiana, segnatamente nella gestione delle informazioni e nel comunicare. E’ altresì diffusa l’opinione che essa cambierà l’economia: in meglio ( efficienza), ma anche in peggio ( disoccupazione tecnica, eco di Ricardo “On Machinery”, 1821, e dei Ludditi). Cruciale è il legame con la produttività. Molti pensano che crescerà, estendendosi l’IT all’intero sistema economico. Poiché la dinamica della produttività determina per più della metà il progresso del Pil, la ricchezza delle nazioni trarrebbe dall’IT un formidabile impulso. Nelle stesse economie “avanzate” d’Occidente tornerebbe ad accelerare una crescita della produzione che prima del Covid 19 tendeva a scivolare verso il 2% l’anno, appena oltre la metà della media mondiale, esaltata da Cina e India.

Di fronte a siffatte attese è tanto doveroso quanto spiacevole notare che secondo i migliori economisti il miracolo della produttività da IT ancora non emerge dalle statistiche e dalle indagini econometriche più raffinate.

E’ passata, se non alla storia, alla cronaca dell’analisi economica l’esclamazione sfuggita a Robert Solow nel 1987, l’anno in cui meritò il premio Nobel: “Si vedono computers dappertutto, tranne che nei dati della produttività”. Più di recente un illustre allievo di Solow, Robert Gordon, ha corroborato lo scetticismo del vecchio maestro. Nell’intera economia degli Stati Uniti la produttività di lavoro e capitale era cresciuta del 2,2% l’anno nel 1922- 1972: il cinquantennio dell’acqua corrente e della luce elettrica in tutte le case, degli elettrodomestici, dei motori più potenti nei trasporti, degli ascensori e simili innovazioni a largo raggio. Invece, nel 1972- 1996 – quando i calcolatori elettronici divenivano ovunque presenti – il ritmo d’incremento della produttività americana scemava all’ 1% l’anno. L’introduzione dell’IT rilanciava la produttività all’ 1,9% nel 1996- 2004. Ma era un fuoco di paglia: la sua penetrazione nell’economia e nella società americane non riusciva negli anni successivi a impedire un nuovo rallentamento della produttività, nettamente al disotto dell’ 1%. Il dato è davvero preoccupante. Gli Stati Uniti non sono più la maggiore economia del mondo; dal 1970 accusano continui disavanzi di bilancia dei pagamenti; il debito pubblico travalica ampiamente il Pil ed è in buona parte in mani cinesi; la posizione verso l’estero è passiva per 11 trilioni di dollari. Il paese vive come in una bolla, risparmiando poco e consumando al di là delle proprie risorse. L’IT non può bastare, così come non basterà più il signoraggio del dollaro quale valuta di riserva, incalzato dal renminbi e dall’euro. Edmund Phelps, altro premio Nobel ( 2006), di impostazione più liberista rispetto a Solow e a Gordon, è di recente tornato sul tema in un volume ( Dynamism, Harvard University Press, 2020) prodotto insieme con alcuni suoi allievi ( fra cui Raicho Bojilov). Sulla base di nuovi dati elaborati dalla Banca di Francia Phelps e i suoi hanno confermato come fenomeno generale delle economie avanzate, non limitata agli Stati Uniti, la tendenza al rallentamento della produttività negli ultimi decenni: l’andamento è addirittura prossimo alla crescita zero in Italia come pure in altri principali paesi europei ( Tabb. 2.1 e 2.2, p. 58). Bojilov ha in particolare sottolineato che negli Stati Uniti dal 1987 la produttività di lavoro e capitale è esplosa all’interno del settore dell’IT, aumentando di 13 volte, ma l’aumento non si è esteso al resto dell’economia. Ciò non è avvenuto nemmeno in settori come le telecomunicazioni, la finanza, l’energia, le vendite al minuto ( Fig. 3.9, p. 81), branche nelle quali la produttività ha frenato, se non ristagnato o addirittura subìto una flessione. La spiegazione è aperta, il dubbio sul futuro permane.

Del pari aperte sono le implicazioni per la politica economica. E’ comprensibile che i governi, quello italiano incluso, non si disinteressino di Industria 4.0, digitale, robotica, intelligenza artificiale. Meno scontato è che pongano l’IT, il suo sviluppo, la sua diffusione al centro della politica industriale affidandosi anche a costosi sussidi. In particolare non si capisce perché il settore dell’IT debba essere destinatario di aiuti statali: se è così produttivo come i dati statistici segnalano, a motivare le imprese che vi operano dovrebbero essere sufficienti le prospettive di profitto che quell’attività sembra dischiudere.