«Il diritto è giusto solo quando è prevedibile, e in materia di prevenzione il diritto è del tutto imprevedibile», afferma l’avvocato Baldassare Lauria, che insieme ai colleghi Alberto Stagno d’Alcontres e Stefano Giordano difende Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, gli imprenditori siciliani che, pur assolti dalle accuse di mafia, hanno visto confiscati tutti i loro beni. La vicenda è ora davanti alla Corte di Strasburgo.

Avvocato Lauria, l’Avvocatura dello Stato, nelle argomentazioni inviate alla Corte europea dei Diritti dell’uomo, ha sostenuto che le misure di prevenzione non avrebbero un carattere punitivo.

La posizione dell’Avvocatura è in linea con la giurisprudenza espressa negli anni dalla Cassazione. D’altro canto, negare la natura penale delle misure di prevenzione patrimoniali è stata una necessità per conservare il sistema. Le misure di prevenzione non hanno alcuna copertura costituzionale e sfuggono a principi come quello della “irretroattività delle norme” e del “giusto processo”. Si è operata una forzatura giuridica, oltre che intellettuale: si dice che le misure hanno “natura afflittiva” ma non sono materia penale.

E però l’afflittività è proprio uno dei caratteri che esprimono la natura penale di una misura.

L’approccio sostanzialistico della “materia penale”, espresso dalla Cedu, ha preso le mosse dalla sentenza EN- GEL c/ Paesi Bassi del 1976, nella quale la Corte esponeva i criteri di valutazione, che da allora hanno ricevuto costante applicazione, quali la natura dell’illecito e la gravità della sanzione, e ciò a prescindere dalla qualificazione che si dà alle norme. Nel caso delle misure di prevenzione v’è la perdita definitiva del patrimonio, si determinano una serie di decadenze e di impedimenti che non consentono più la conduzione di una vita economica e sociale, salvo una improbabile riabilitazione che può avvenire a distanza di anni.

Lo stesso concetto di riabilitazione, oltretutto, allude ad una colpa e dunque ad una pena.

La questione è dirimente. Il riconoscimento della natura penale alla materia di prevenzione determina l’applicazione delle garanzie sancite dagli articoli 6 ( equo processo), 7 ( principio di legalità dei reati e delle pene e divieto di applicazione retroattiva) della Convenzione europea dei Diritti umani, nonché l’articolo 4 ( divieto del bis in idem) del Protocollo 7. Significherebbe un durissimo colpo alle misure di prevenzione, ormai divenuto un sistema penale alternativo. Senza garanzie difensive, senza prove, spesso senza fatto: una sorta di territorio estraneo al diritto.

L’intera “autodifesa” proposta dall’Italia rimanda al principio per cui un innocente può essere colpito dalle misure ablative e sacrificato sull’altare della lotta alla mafia anche quando non è intraneo al consorzio criminale ma è semplicemente strumento della mafia. E neppure “strumento” in quanto “prestanome”, ma, indirettamente, in quanto teorico affidatario di obiettivi strategici di arricchimento. È di fatto attraverso questa ‘ capriola’ che si arriva a sostenere che l’imprenditore assoggettato al pagamento del pizzo “apparterrebbe alla mafia”, e quindi deve pagare. E questo due volte: prima col pizzo e poi con la confisca. È una ricostruzione in grado di reggere un contraddittorio davanti a una Corte internazionale?

È una vera capriola. Il sistema, in realtà, è figlio di una visione dispotica, fascista, della giustizia, che trasforma la vittima in carnefice. Si è ovviato all’incapacità dei governi facendo passare coloro che lo Stato doveva proteggere dalle interferenze mafiose per complici dei criminali. Lo strumento concepito dal legislatore è una punizione. È un meccanismo di indubbia potenza ma colpisce tutti, colpevoli e innocenti, sviluppando un sistema antimafia che non si nutre di sola mafia e che compie strage di diritti. Si invoca l’emergenza mafiosa, dal 1965, per giustificare l’approssimazione dei giudizi, ma il concetto di emergenza è ontologicamente transitorio.

Nel definire lo status dei Cavallotti, colpiti dalle confische contro cui è stato proposto il ricorso alla Cedu, si parla non di “partecipazione” al consorzio mafioso ma di “appartenenza”. Non si tratta della “appartenenza” di chi contribuisce all’attività criminale ma della condizione di chi sarebbe “in pugno” alla mafia. È una concezione giuridica che già di per sé offende la persona, tanto da ridurla, per via di una fragile astrazione, a mero oggetto nelle mani di un criminale?

La nozione di appartenenza mafiosa risale alla legge 575 del 1965, allorquando il fenomeno mafioso veniva penalmente perseguito con il reato di associazione per delinquere di cui all’articolo 416. Fino alla legge Rognoni- La Torre del 1982, che ha introdotto lo specifico reato di associazione mafiosa, la giurisprudenza era pacifica nel ritenere l’appartenenza come categoria equivalente alla partecipazione: appartenente era cioè colui che faceva parte dell’associazione. Con la Rognoni- La Torre, invece, la partecipazione all’associazione, rilevante penalmente, è stata interpretata come concetto diverso dall’appartenenza rilevante ai fini della prevenzione.

Nella prassi giudiziaria si è stratificata una vera “torre di babele”: si è considerata la “appartenenza” la mera contiguità al fenomeno, ma anche l’adesione ideologica o la semplice la relazione affaristica con soggetti mafiosi.

La verità è che la fattispecie prevista dalla lettera a) dell’articolo 4 del codice antimafia, appartenenza all’associazione mafiosa, non trova corrispondenza in alcun modello legale già tipizzato dal sistema penale. È una categoria giuridica che fa riferimento a condotte che non costituiscono reato. Il sistema di prevenzione è un mostro giuridico, si confiscano patrimoni in ragione di condotte che non hanno rilievo penale, tanto che nella maggior parte dei casi i soggetti sono stati ritenuti estranei alla mafia in sede penale e assolti, come i Cavallotti.

Una pronuncia a loro favorevole e che mettesse “al bando” le misure di prevenzione inflitte a chi, per quegli stessi fatti, risulti innocente, potrebbe spalancare le porte di un intervento della Corte europea su aspetti dell’ordinamento penale che configurano il “doppio binario” fra le norme concepite per il processo in generale e quelle almeno inizialmente riservate ai soli reati più gravi, ossia di mafia e terrorismo?

Indubbiamente una pronuncia favorevole, che noi auspichiamo, imporrebbe al legislatore la modifica dell’intero impianto codicistico antimafia. L’Avvocatura dello Stato, che ovviamente tende alla conservazione del sistema di prevenzione, assume la natura non penale delle misure di prevenzione, ma non si confronta con l’evoluzione del diritto comunitario. Basti pensare al Regolamento ( Ue) 2018/ 1805, per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di confisca, in vigore in Italia dal 2020 e che fa riferimento, per la validità giuridica, ai provvedimenti emessi nell’ambito di un procedimento penale.

Per avere validità europea, la confisca deve essere emessa nell’ambito di un procedimento penale. In Italia, invece, in un procedimento che porta alla confisca, si negano i diritti connessi al giusto processo penale...

È come l’anima di Platone, l’anima è nel corpo ma non è il corpo.

In commissione Giustizia alla Camera, i deputati di Forza Italia hanno ottenuto il via libera a inserire nel calendario dei lavori la proposta di riforma delle misure di prevenzione antimafia, a cominciare dalla riconnessione fra questi provvedimenti ablativi e le risultanze del procedimento penale. Questa circostanza non contribuisce, seppure in forma impropria e indiretta, a indebolire le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato?

L’iniziativa è ammirevole, vedremo. Come tutti i progetti politici bisogna essere prudenti a fare previsioni. La difesa dell’Avvocatura dello Stato è solo narrativa: ripercorre la storia della normativa di prevenzione e si concentra nell’elencazione delle sentenze della Cassazione. Ma il problema è sistemico: è l’assetto normativo che si disvela eccessivamente discrezionale, demanda ai giudici di merito la definizione del precetto, con ricadute in termini di indeterminatezza e precisione della legge, che si applica retroattivamente, così da lasciare gli imprenditori sempre in balia delle nuove sensibilità politiche. L’azione di prevenzione interviene senza limiti di tempo, arriva a colpire patrimoni formati negli anni Settanta, in un contesto socio- normativo del tutto diverso da quello attuale.

Nei Paesi europei di tradizione democratica, come ad esempio la Francia, esiste un sistema di confisca senza reato?

Può procedersi alla confisca senza condanna ma soltanto quando le condotte che si addebitano rientrano in una cornice di natura penale. Noi siamo in un’era giuridica lontana dal pensiero garantista: si sostituisce la presunzione di colpevolezza alla responsabilità, il sospetto al fatto. Il diritto alla prova degrada allo stadio della concessione del giudice. Un sistema penale del presunto colpevole che speriamo la Cedu possa abbattere.