Ora, potrebbe capitare che a Mark David Chapman, l’uomo che l’ 8 dicembre 1980 sparò a John Lennon con una calibro 38, sotto il Dakota Building, New York, oggi detenuto in un carcere a Wende, Buffalo, alla prossima presentazione davanti al Parole Board – che è la commissione di libertà condizionale che decide se un criminale possa essere rilasciato dal carcere in libertà vigilata dopo aver scontato almeno una parte della pena, siamo già all’undicesima volta – vada bene. Ha pure scritto, nel novembre 2020, una lettera a Yoko Ono, in cui dichiara “spregevole” quel suo gesto.

Di certo, è andata bene, dopo cinquantatré anni e alla sedicesima presentazione davanti al Parole Board a Sirhan Bishara Sirhan, oggi settantasettenne, l’uomo che la notte tra il 5 e il 6 giugno 1968, nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles, sparò tutti gli otto colpi della sua calibro 22 contro Robert F. Kennedy. Cambiando la storia americana. È il giugno 1968. Il 4 aprile hanno sparato al dottor Martin Luther King al Lorraine Motel a Mulberry Street di Memphis. King doveva cenare a casa del reverendo Kyles, che alle 17 e 30 giunse al motel chiedendo al pastore di seguirlo. Salomon Jones, l’autista di King, gli consigliò, visto il freddo, di coprirsi con un cappotto.

Alle 18 e un minuto King uscì sul balcone del secondo piano del motel, dove venne colpito da un colpo di fucile di precisione alla testa; un singolo proiettile calibro 30- 06 sparato da un Remington 760 da James Earl Ray. Il proiettile entrò attraverso la guancia destra di King, spaccando la mascella e diverse vertebre mentre scendeva lungo il suo midollo spinale, tagliando la vena giugulare e le arterie maggiori prima di fermarsi sulla spalla. King cadde violentemente all’indietro sul balcone, incosciente. Trasportato al St. Joseph’s Hospital, i medici constatarono un irreparabile danno cerebrale, e la sua morte venne annunciata alle 19 e 05. Il presidente Johnson chiese al popolo di non cedere alla violenza, ma in più di cento città si erano scatenati tumulti. Ci furono quarantasei morti, più di duemila feriti e più di ventimila arresti.

Ora è giugno. Robert si è candidato alle primarie a marzo e si sarebbe votato a novembre. Sfidava il presidente in carica, Lyndon Johnson, il vice che aveva giurato il giorno che a Dallas avevano sparato all’altro Kennedy, al presidente, e che poi era stato riconfermato nel 1964. A gennaio la rielezione di Johnson – una delle presidenze più controverse: suo era il piano di riforme della Great Society, come il Medicare e il Medicaid, suo il Civil Right che aumentava i diritti degli afro- americani, sua la “guerra alla povertà” come suo l’impegno colossale nell’escalation della guerra in Vietnam – era data per certa, tanto che Robert aveva detto pubblicamente che non intendeva candidarsi.

Alla fine di gennaio però i vietcong lanciarono la più grande offensiva dall’inizio della guerra in Vietnam, “l’offensiva del Tet”, il giorno del capodanno vietnamita: l’attacco mostrava con ogni evidenza che la guerra era molto lontana dall’essere vinta e che gli sforzi bellici della presidenza Johnson erano stati inutili.

L’offensiva del Tet rafforzò nel Partito democratico la posizione di Eugene Mc-Carthy che si era sempre opposto alla guerra e indebolì Johnson che a marzo si ritirò. È a questo punto che Robert, da sempre contrario alla guerra, aveva deciso di presentarsi. Così, il “fronte pacifista” aveva due candidati, McCarthy e Kennedy, mentre il ritiro di Johnson aprì la strada al suo vice, Hubert Humphrey, appoggiato dall’establishment dem. Quando a aprile sparano al dottor King, Kennedy è in Indiana. Viene informato della morte di King appena atterrato a Indianapolis.

Di lì a poco avrebbe dovuto partecipare a una manifestazione proprio nel cuore del ghetto nero di Indianapolis e il capo della polizia, afroamericano, temendo per la sua sicurezza e per paura di disordini in città, gli sconsiglia di partecipare. Ma Bob non volle sentir ragioni, andò lì, mise un cappotto, salì sul piano del camion e disse: «Anche io ho un membro della mia famiglia ucciso da un uomo bianco». Era la prima volta che parlava in pubblico della morte di John.

La campagna di Kennedy andò abbastanza bene ma McCarthy non mollava e, alla fine, sarebbe stata la California a decidere chi dei due si sarebbe giocata la partita con Humphrey alla convention. La California premiò Kennedy e si decise di festeggiare la vittoria all’Hotel Ambassador, alla mezzanotte. Dopo il discorso, Kennedy avrebbe dovuto raggiungere un’altra stanza dove lo aspettavano alcuni attivisti della sua campagna. Però i giornalisti chiesero una conferenza stampa e convinsero il direttore della campagna elettorale a cambiare il programma. Kennedy avrebbe raggiunto la sala stampa passando attraverso le cucine dell’albergo.

Lo avvisarono all’ultimo momento, circondato dalla folla e un maitre dell’albergo lo prese per il polso, guidandolo verso le cucine. Le cucine erano affollate e Kennedy si fermava di continuo per stringere mani e salutare. Procedeva lentamente, e arrivò a una strettoia tra una macchina del ghiaccio e un portavivande. Kennedy si fermò a salutare un ragazzo. In quell’istante Sirhan si avvicinò rapidamente, muovendosi da dietro un portavassoi che si trovava poco lontano dalla macchina del ghiaccio.

Impugnava un piccolo revolver calibro 22. Sparò il primo colpo a pochi centimetri dalla testa di Kennedy. Il proiettile entrò da dietro l’orecchio sinistro, disperdendo frammenti d’osso in tutto il cervello. Altri due colpi gli entrarono sotto l’ascella. Un quarto colpo passò attraverso i vestiti e ferì un’altra persona. Ci fu una colluttazione, Shiran venne bloccato non prima di avere finito tutti i suoi colpi, ferendo altre cinque persone.

Kennedy era a terra, ancora cosciente. Arrivò la moglie Ethel. Lo portarono all’ospedale del Buon samaritano dove morì ventisei ore dopo. L’ 8 giugno il suo corpo venne trasportato da New York a Washington a bordo di un treno. Centinaia di migliaia di persone si allinearono lungo i binari per salutarlo. Quel corteo funebre rimase nella storia degli Stati Uniti come il “Funeral train”. Alle presidenziali Hubert Humphrey sfidò Richard Nixon e perse malamente.

Sirhan Bishara Sirhan era nato nel 1944 in Palestina in una famiglia di origine cristiana, che, quando lui aveva dodici anni, si traferì negli Stati uniti, prima a New York e poi in California. Nel 1968 aveva perciò ventiquattro anni, e aveva sviluppato una ossessione contro Kennedy, colpevole, a suo avviso, di avere appoggiato Israele. Almeno, questo è quello che scriveva nel suo diario e quello che dichiarò successivamente, anche se della sequenza precisa dell’attentato ha sempre detto di non ricordare nulla.

Negli anni ha sempre più preso consistenza l’ipotesi che a uccidere Kennedy Sirhan non fosse da solo, cioè che la sua non sia stata l’unica pistola che abbia sparato nelle cucine dell’Hotel Ambassador, e la famiglia ha chiesto ripetutamente che vengano riaperte le indagini, ma inutilmente.

Sulla sua liberazione, i numerosi figli di Bob – erano undici, ma due sono intanto morti – si sono divisi. Due, al tempo piccolissimi, si sono dichiarati d’accordo e una terza ha ripetuto la volontà di riaprire il caso, convinta dell’innocenza di Sirhan.

L'ultima parola spetterà al governatore della California, Gavin Newson, che difficilmente cambierà la decisione: per la prima volta la procura non si è presentata in aula per opporsi, seguendo la nuova linea del procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles, George Gascon, convinto che il lavoro dell'accusa si fermi al momento della condanna.

«È passato più di mezzo secolo e quel giovane ragazzo impulsivo che ero non esiste più», ha detto Sirhan durante l'ultima udienza. È passato più di mezzo secolo. E la storia continua a inseguirci.