I carabinieri in casa alle 4 del mattino. L’elicottero che gira sul palazzo. Foto segnaletiche su tutti i giornali, video, audio e stralci di ordinanza ovunque. Ma nessuna prova, se non quella più banale: Giulia Dieni, quasi 30 anni di professione alle spalle, stava facendo solo l’avvocato. E per questo entrava e usciva dal carcere, parlava con boss e affiliati. Come qualunque altro collega impegnato in processo per criminalità organizzata. Ma Dieni, conosciuta e apprezzata avvocata di Reggio Calabria, a luglio del 2014 è stata arrestata: secondo la Dda dello Stretto, era intranea alla cosca Alampi e per i boss faceva entrare e uscire messaggi dal carcere, consentendo al clan di mantenere in piedi i propri affari. Indizi? Nessuno. Letteralmente. Ma nonostante questo Dieni ha dovuto subire due condanne, salvo poi vedersi rispedire in appello dalla Cassazione, che chiedeva di poter vedere almeno un fatto che dimostrasse la tesi dell’accusa. E nel nuovo processo d’appello, conclusosi qualche giorno fa, il fatto è arrivato: Dieni è innocente. Ci sono voluti nove anni e mezzo, però, per stabilirlo.
Quella di associazione mafiosa è un’accusa gravissima, per un avvocato lo è ancora di più. Com’è andata?
Il 22 luglio del 2014 mi viene notificata quest’ordinanza di custodia cautelare e mi vedo arrivare in casa un drappello di carabinieri del reparto speciale, il Ros, incappucciati. Essendo chiaramente avvezza alla lettura di questi atti mi sono resa conto subito che l’accusa non stava in piedi: sostanzialmente mi veniva contestato di aver fatto l’avvocato. Io non ero mai stata intercettata, non c’erano particolari elementi indiziari, nulla. Avrei potuto chiarire tutto subito con un interrogatorio preventivo, invece, hanno ritenuto di dover applicare la massima custodia cautelare.
Lei ha passato 17 giorni in carcere: che esperienza è stata?
Non è stata la cosa più traumatica. Devo essere sincera: io in carcere ci entravo da avvocato e, contrariamente ai miei meriti, sono sempre stata più che benvoluta. Probabilmente ho avuto un trattamento diverso - pur nel rispetto delle regole - rispetto a quello che si applica alle persone detenute. Questa disavventura per fortuna è finita grazie ad un magistrato estremamente attento, il dottor Minutoli, che si è reso conto nell’immediatezza, col tribunale della Libertà, che applicare quella misura era assolutamente un fuor d’opera. Nella speranza di risolvere tutto subito abbiamo scelto il rito abbreviato, ma probabilmente ho sopravvalutato chi doveva prendere le decisioni.
Il gip, nell’emettere il provvedimento cautelare, aveva riqualificato il fatto in concorso esterno, ma lei è stata condannata come intranea.
Alla fine comporta poco, perché come sa le pene sono esattamente le stesse. Però chiaramente la condotta è diversa e più logica per un avvocato che viene considerato una specie di “consigliori”. Invece sono stata condannata come se facessi parte di quella cosca, come se mi avessero dato un’investitura, un ruolo.
Sulla base di cosa?
Alcuni miei ex clienti erano stati intercettati durante i colloqui con i familiari, mentre dicevano “ho detto all’avvocato”, “ho detto a Giulia”. Però, poi, dall’altra parte non c’è mai stato un riscontro che queste “pretese” si fossero tradotte in qualcosa. Anzi, erano stati tutti condannati. Inoltre non ero l’unica a difendere queste persone, eravamo almeno in 12 e lavoravamo di concerto. Ma c’è stato una sorta di sorteggio per trovare due capi espiatori: oltre me, all’epoca, anche l’avvocato Putortì era stato coinvolto in questa vicenda. Era sembrata una cosa strana, anche perché quando accadevano i fatti eravamo sposati.
Com’è stata motivata una condanna a otto anni, visto che non c’erano questi riscontri?
Sostanzialmente con un copia-incolla rispetto all'ipotesi accusatoria che aveva formato oggetto del provvedimento cautelare. Né più e né meno. Abbiamo fatto appello e lì, francamente, pensavo davvero che si potesse risolvere tutto. Invece no e se devo dire la verità è stata più cocente come delusione, anche perché l’avvocato Putortì fu assolto e gli stessi fatti vennero utilizzati in modi contrapposti per le due decisioni. All’epoca fecero una sentenza che io definì di compromesso: se siete realmente convinti che il mio ruolo è stato quello allora confermatemi la condanna. Invece fu ridotta a quattro anni e otto mesi. Non si comprende neanche bene perché, dato che non mi diedero le generiche. Ma per me era assolutamente irrilevante: anche un giorno di condanna sarebbe stato ingiusto.
Poi è arrivata la Cassazione, che ha annullato con rinvio con una sentenza totalmente tranciante: i giudici hanno scritto che i colleghi d’appello avevano «trascurato di valorizzare il dato costituito dalla presenza di sole intercettazioni intercorse fra terze persone, che si riferiscono essenzialmente a quello che l’avv. Dieni avrebbe dovuto fare, non già a quello che la stessa aveva fatto».
Insomma, non si poteva arrivare ad un esito diverso dall’assoluzione nel nuovo appello. Tant’è che anche il procuratore generale l’ha chiesta. Certo, i tempi si sono dilatati in una maniera spaventosa: immagini cosa sono stati nove anni e mezzo con una spada di Damocle sulla testa e quali ripercussioni ci sono state anche a livello professionale. Io sono riuscita a tenere duro, però non è stato facile. Purtroppo ho difeso gente che si è trovata nella mia stessa situazione: oggi sono persone distrutte. Immagini se l’epilogo fosse stato un altro: sarei dovuta andare a scontare una pena per fatti commessi quasi 20 anni fa. Che è quello che comunque comunemente capita.
Crede ancora nella giustizia?
Per me questa è una cosa dalla quale non si prescinde. Sicuramente credo meno in chi la amministra. Perché è chiaro che incontri persone scevre dal pregiudizio, ma incontri anche, purtroppo, gente che - e questo è drammatico - non lo è. Io sono stata anche in grado di capire e criticare l’atteggiamento di chi secondo me - e oggi possiamo dirlo con certezza - ha sbagliato. Il povero cittadino che incappa in questa cosa non sempre ha gli strumenti per poterlo fare.
Dal punto di vista mediatico, come sono stati quei giorni?
Io rispetto molto il diritto di cronaca, che è sacrosanto. Ma in alcuni casi si è andato oltre il consentito, oltre il dovuto, oltre il necessario. Probabilmente senza neanche avere letto una carta.
Ci fu molta polemica per la sua candidatura per le elezioni dei vertici della Camera penale e per il fatto che nessuno avesse preso provvedimenti contro di lei: si lasciò intendere che ci fosse una sorta di peccato originale dell’intera categoria…
All’epoca il presidente, Emanuele Genovese, mi disse: ti vuoi candidare? Facevo già parte della Camera penale, quindi non fu una cosa capitata dall’oggi al domani. Però in quell’occasione decisi di candidarmi nel Consiglio dei probiviri, più che altro per un riscatto mio personale, per capire se la solidarietà espressa nell’immediatezza fosse reale. Ed era così: fu quasi un plebiscito. Mi dimisi subito dopo la proclamazione, ringraziando e sottolineando che per me era un’attestazione di stima da parte dei miei colleghi. Ma si scrisse di me parlando della mafia in tacco 12. Una cosa che, onestamente, ci potevamo risparmiare.
Secondo lei c’è un atteggiamento di pregiudizio nei confronti dell’avvocato?
Devo dire all’epoca l’abbiamo vissuta un po’ tutti in questo modo. Successivamente tanti colleghi hanno avuto, purtroppo, a torto o ragione, situazioni dello stesso genere. Però non con l’eco mediatico che c’è stato per me. All’epoca l’ho un po’ vissuta come una sorta di avvertimento nei confronti della categoria e devo dire che forse ci sono anche riusciti. Perché comunque in un determinato momento l’avvocatura, soprattutto quella reggina, è stata abbastanza silente. Ora le cose sono un po’ cambiate. Ma noi siamo veramente in pericolo: basta nulla, un’intercettazione, la cattiva interpretazione di una parola e tutto crolla.
Può accadere anche che un cliente insoddisfatto decida di incastrarla?
Tutto sommato sì, anche quello potrebbe essere. Però è peggiore il pregiudizio da parte di chi ascolta.
Lei si è sentita addosso lo stigma della ’ndrangheta?
Faccio l’avvocato da quasi trent’anni, forse fosse capitato ad un collega più giovane sarebbe stato più deflagrante. Certo, sicuramente qualcuno ha avuto il retropensiero, magari ce l’ha ancora adesso. Ho avuto ripercussioni dal punto di vista professionale, perché alcune persone che si erano affidate a me magari hanno pensato che un avvocato indagato fosse inviso alla procura. Forse è un fatto fisiologico e non li rimprovero per questo. Ma le persone che mi conoscevano mi sono rimaste fedeli.
Ha avuto manifestazioni di solidarietà da parte della magistratura?
Ovviamente sì. Ma le ho avute addirittura anche allora e qualcuno mi ha scritto pure in quei 17 giorni che ero in carcere. Certo magari qualcuno non si espone, magari se ti incontra nel corridoio te lo dice, ma in un orecchio. Ci sono quelli più coraggiosi e quelli meno. Ma sono esseri umani come tutti.