Professor Pasquino, pensa che la maggioranza raggiungerà un accordo sul progetto di autonomia differenziata del ministri Calderoli?

Penso che su questo tema la distanza tra un partito nazionalista e sovranista come Fratelli d’Italia e uno che a suo tempo voleva la secessione, come la Lega, non può essere più grande di quel che è. L’intento di Calderoli è voler dimostrare che con l’autonomia alcune regioni del Nord farebbero dei passi clamorosi in avanti, fregandosene di quel che può succedere nelle regioni del Sud e anzi lasciando intendere che sono inadeguate e meritano di essere lasciate andare a fondo. Per questo siamo in una situazione in cui è difficilissimo trovare un punto di caduta. Ma sono convinto che lo cercheranno e alla fine arriveranno a un minimo comune denominatore.

Su questo le opposizioni si stanno dimostrando compatte, rifiutando in toto la proposta di Calderoli: può essere una base per delle battaglie comuni al governo?

Non direi che le opposizioni stiano messe meglio. È vero, hanno respinto la proposta, ma ricordo che a suo tempo Bonaccini era uno di quelli che voleva l’autonomia differenziata. Certo diversa da quella di Calderoli ma anche una parte del Pd rincorreva una preferenza dell’elettorato, della cui veridicità tra l’altro sappiamo sappiamo pochissimo. L’elettorato leghista del Nord di certo vorrebbe l’autonomia, ma ormai rappresenta una minoranza molto piccola. L’unico che può vantare un elettorato forte è Zaia, ma è più suo che della Lega.

C’è poi il tema del presidenzialismo, in questo caso molto caro a Forza Italia ma che non dispiace nemmeno a Fratelli d’Italia. Che ne pensa?

Fintanto che si parlasse unicamente dell’elezione popolare e diretta del presidente della Repubblica, il centrodestra potrebbe raggiungere un accordo. Se invece si parla di semipresidenzialismo, cioè quello francese della quinta repubblica, esso non è negoziabile, nel senso che le caratteristiche principali non possono essere negoziate. Poi si può discutere se all’interno di questo sistema si può avere un regionalismo differenziato ma non era questa l’idea di de Gaulle. Quindi, a differenza dell’autonomia, è un tema sul quale è difficile arrivare a un minimo comune denominatore. Di certo Meloni non accetterebbe mai un presidenzialismo all’americana, come vuole Berlusconi, perché tra l’altro non funziona bene. Ha prodotto Trump e anche oggi Biden ha un governo diviso con i Repubblicani che controllano la Camera. Altro che potere decisionale.

Crede che i segnali di tensioni arrivati in questi giorni dopo il decreto carburanti segnalino la fine dell’iniziale luna di miele per il governo?

Dal punto di vista dei sondaggi la spinta propulsiva c’è ancora. Essi continuano a premiare Giorgia Meloni e a dare Fratelli d’Italia attorno al 30 per cento, che è tantissimo. Ma in politica ci sono cose da evitare e altri inevitabili. Ciò che bisogna evitare è fare promesse che non si possono mantenere, e infatti di tanto in tanto Meloni torna indietro rispetto a quanto detto in campagna elettorale. Quel che è inevitabile invece è fare una politica nazionale senza farsi mettere i piedi in testa dai benzinai, dai balneari o altre categorie. Perché così facendo si perde la bussola del governo.

Visto che in Lombardia Pd e M5S corrono insieme, mentre nel Lazio ad essere alleati sono Pd e terzo polo, pensa che i tre partiti di opposizione abbiano sbagliato strategia in vista delle Regionali?

Quale strategia? Qui c’è la totale incapacità di delineare una strategia. Ciascuno di quei partiti pensa ai suoi interessi specifici di cortissimo periodo. Il Pd è un po’ più lungimirante, ma se i Cinque Stelle pensano solo di strappare qualche voto al Pd non si va da nessuna parte. Il rischio ovviamente è che vinca il centrodestra. Cioè che in Lombardia vinca Fontana, che non è un fulgido esempio di politica brillante, e che nel Lazio vinca Rocca, candidato di Meloni.

Bonaccini ha detto che il primo passo da segretario eletto sarebbe chiedere un incontro a Meloni per un’opposizione costruttiva e dialogante: è d’accordo?

Mi lasci fare un lunghissimo respiro. Il primo compito di chiunque diventi nuovo segretario di un partito è rafforzare e ricostruire quel partito. È inutile parlare con Meloni, deve parlare con gli iscritti e con i militanti per capire perché sono stati persi voti e perché il Pd, in certe zone del paese, non esiste più. Bonaccini non è il capo dell’opposizione ma il capo di uno dei tre partiti di opposizione, quindi sarebbe comunque in una posizione minoritaria. E soprattutto prima si fa opposizione, poi si decide se si fa in maniera costruttiva su alcuni punti o intransigente su altri, ad esempio sui diritti delle persone.

Come arriva il Pd a questo Congresso?

La discussione sui tempi è stata abbastanza stupida. Quei mesi servono per affinare gli argomenti e discutere con le persone. Ma sono i modi che non vanno bene, non vedo nulla di particolarmente scintillante. Vedo la riproposizione di quello che abbiamo già visto in tutte le campagne precedenti, nonostante ci siano quattro candidati molto differenti tra loro.

A proposito, quali sono le principali differenze tra loro?

Personalmente non sono stato raggiunto da nessuno dei messaggi dei quattro candidati. Temi come il salario minimo, la guerra e le politiche occupazionali attengono alla politica nazionale e a scelte che farà un governo o un Parlamento e che quindi non sono nelle mani del segretario del Pd. I candidati devono dire che partito vogliono. L’unica cosa che ho apprezzato è che Bonaccini ha detto che non ci saranno più i paracadutati. Schlein invece ha detto che il partito si apra ma non ha detto come, anche se mi è piaciuta sul voto online perché è giusto che tutti possano votare da remoto. Quel che è certo è che manca una visione di partito non per i prossimi cinque ma per i prossimi dieci anni.