Eugenio Albamonte*

L’accelerazione dei tempi della giustizia penale è da anni una delle richieste più pressanti da parte dell’associazionismo giudiziario e in particolare di Area DG. Siamo convinti che una giustizia efficiente sia soprattutto una giustizia celere e che la dilatazione dei tempi del processo si risolva in una denegata giustizia. Crediamo che gran parte della sfiducia dei cittadini nella giustizia è causata dai tempi eccessivamente dilatati e ciò produce quotidiana frustrazione anche per i magistrati.

Riteniamo che sia però responsabilità del Governo e del Parlamento, porre in atto quegli interventi strutturali e normativi che finalmente riconducano il processo a tempi compatibili che l’effettività della risposta giudiziaria. Per questo da anni chiediamo un adeguamento della pianta organica dei magistrati, l’assunzione di nuovo personale amministrativo, la modernizzazione delle dotazioni informatiche, l’adeguamento dell’edilizia giudiziaria, la razionalizzazione della geografia giudiziaria. Tutti interventi strategici per accelerare i processi, insieme alle riforme procedurali che ne snelliscano alcune fasi eccessivamente onerose e dispersive di tempo ed energie e ad una significativa depenalizzazione.

L’approvazione della nuova normativa sulla prescrizione, che ne blocca la decorrenza dopo la condanna di primo grado, rende urgenti questi interventi; perché bloccare la prescrizione senza accelerare il processo espone al rischio di processi infiniti che sarebbero causa di ulteriore perdita di credibilità del sistema. A fronte di queste richieste, tradotte in più occasioni rappresentate anche al Ministro Bonafede, le iniziative di riforma intraprese appaiono inadeguate. Infatti, nel testo presentato prima della caduta del Governo e, stando alle dichiarazioni del Ministro Buonafede, anche nel testo che si accinge a presentare, sembra che il problema voglia essere risolto fissando termini perentori che non potranno essere osservati, e comminando sanzioni disciplinari a pioggia in danno dei magistrati che non ne rispetteranno le scadenze.

Le altre riforme individuate, in tema di notifiche alle parti, di ampliamento dei poteri del giudice dell’udienza preliminare, di istituzione del giudice monocratico di appello non varranno a ricondurre i procedimenti di primo e secondo grado nelle fasce temporali previste a pena di iniziativa disciplinare obbligatoria e costringeranno i giudici a dedicare parte significativa del loro tempo a stendere relazioni per spiegare che il ritardo, nel caso specifico, è determinato da quelle carenze strutturali e di personale che sono già note allo stesso Ministro.

Quanto alle indagini preliminari va evidenziato che, eliminata opportunamente l’avocazione obbligatoria istituita con la riforma Orlando, le nuove tempistiche non sono supportate da interventi che consentano il rispetto di quelle scansioni. I tempi delle indagini preliminari sono infatti condizionati principalmente dalla speditezza delle attività delegate alla polizia giudiziaria che, a propria volta, è onerata dall’accertamento di un numero infinito di reati, non tutti individuati dal legislatore in presenza di una offesa percepibile a beni giuridici di primaria importanza.

Anche la carenza del personale amministrativo, aggravata dall’obsolescenza dei supporti informatici e dalla mancanza di adeguata formazione, incide sui tempi delle indagini, perché ogni singolo atto del pubblico ministero richiede una attività amministrativa per la sua completa formazione, per la sua comunicazione all’esterno, per l’esecuzione.

In questa situazione di grave carenza, scandire in modo più serrato i tempi delle indagini vuol dire adottare norme manifesto che solo apparentemente esonerano il Ministro dalle sue responsabilità politiche ed istituzionali, lasciando inalterato l’effetto sulle dinamiche reali di questa delicata fase.

Gli effetti della decorrenza dei nuovi termini appaiono poi essere dannosi per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità penali nonché fuorvianti ed ingiustamente punitivi per al magistratura requirente.

Infatti, da un lato si prevede la discovery anticipata degli atti di indagine con inevitabile pregiudizio per la completezza ed accuratezza degli accertamenti, alla quale consegue una menomazione complessiva della capacità di accertamento dei fatti e delle responsabilità; dall’altra, ancora una volta sanzioni disciplinari per i ritardatari che, oltre ad essere ingiustamente punitive, consegnano all’opinione pubblica, ancora una volta, la volgare falsità che vuole sia l’indolenza dei pubblici ministeri la causa principale del prolungarsi dell’attività investigativa.

Le due misure insieme, peraltro, tradiscono la convinzione che sia solo nell’interesse del PM e non della giustizia un accertamento ampio e completo su reati, giungendo a sanzionare la pretesa inerzia dei primi anticipando la chiusura della indagini ancorché incomplete.

Siamo, in fine, molto preoccupati, per le distorsioni concrete che le norme indicate potranno produrre sul corretto operato della magistratura requirente e sullo stesso modello professionale del magistrato dell’accusa. Termini perentori non oltre prorogabili e sanzioni disciplinari immotivate potrebbero condurre ad un approccio auto difensivo, che sacrifica l’accertamento dei fatti per evitare di esporsi a censure, e produce rinvii a giudizio ed archiviazioni affrettate e non sostenute da adeguati elementi di giudizio. Ciò comporterebbe un danno per gli indagati, inutilmente esposti alla fase processuale ed alle relative implicazioni morali economiche e sociali, e per le persone offese, le quali legittime aspettative di tutela verrebbero compromesse se non gravemente ostacolate da affrettate decisioni di archiviazione. Aspetti che dovrebbero allarmare prima di tutto i cittadini rispetto al rischio di riforme tanto roboanti negli annunci quanto inefficaci nei risultati.

* Magistrato, segretario nazionale di Area Democratica per la Giustizia