Dopo giorni di esplosioni a raffica di inchieste - prima la dem Catiuscia Marini, poi la grillina Virginia Raggi in concomitanza col leghista Armando Siri - grande è la confusione sotto il cielo della politica. Eppure, il terremoto ha modificato in modo impercettibile ma profondo i movimenti sotterranei in Parlamento, con inattesi riavvicinamenti intorno alla bandiera del garantismo.

L’ultima a spendersi, in ordine di tempo, è l’avvocata e ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno. Ad Agorà è intervenuta a gamba tesa nel dibattito corrente, ribadendo il suo «io sono garantista, ma per tutti. Non voglio essere garantista o giustizialista a seconda di chi siede sul banco degli imputati», per poi dire a chiare lettere che «ora non c’è una posizione di garantismo nei confronti di Siri». Accusa, la sua, diretta prima di tutto in casa del governo e dunque all’alleato 5 Stelle, sempre meno amico: «Il Movimento sta ponendo attenzione sul tema, mentre noi chiediamo che venga accertato quanto accaduto», ha chiarito la consigliera giuridica di Salvini, rimettendo anche i panni dell’avvocata per precisare che, con l’aggravante mafiosa che incombe su Siri, si sta assistendo a una «dilatazione del capo d’imputazione, che per il sottosegretario non prevede assolutamente questa aggravante». L’attacco, però, non riguarda solo i 5 Stelle. Sul fronte dem, infatti, il Partito Democratico ha scelto la strada dell’opposizione totale, con il segretario Nicola Zingaretti che ha annunciato una mozione di sfiducia contro il governo Conte per il caso Siri. «Conte venga in aula a spiegare lo stato della situazione relativa al sottosegretario Siri», aveva tuonato prima di Pasqua il presidente dei senatori dem, Andrea Marcucci, che ieri ha ribadito - depositando la mozione al Senato - «Sul governo grava il sospetto di asservimento a interessi criminali». Un ennesimo passo nella direzione del nuovo corso Pd, ben delineata dal segretario: garantisti sì, ma previa analisi della propria classe dirigente, con buona pace della minoranza renziana, silenziosa in questa fase elettorale ma sempre più insofferente. Peccato che l’iniziativa non goda dell’appoggio dell’altra minoranza numericamente significativa in Parlamento: Forza Italia, infatti, ha già respinto l’ipotesi di fare da sponda all’iniziativa dem, e per farlo si è scomodato addirittura il leader Silvio Berlusconi, che sul tema ha combattuto per vent’anni. Il Cav ha definito «il solito drammatico errore della sinistra» la scelta di depositare una mozione di sfiducia «sulla base di un sospetto, prima ancora che cominci un processo». Lapidario, ha ribadito che «come sempre, fedele alla sua storia, Forza Italia lavorerà per sconfiggere questo governo con gli strumenti della democrazia e non certo cavalcando vicende giudiziarie o avallando quelle che frequentemente si sono rivelate indebite intrusioni di certa magistratura nella politica».

Scambi di battute apparentemente a distanza, quelle tra i protagonisti del governo e dell’opposizione, ma che restituiscono un insolito affresco. Da una parte la Lega, che fa quadrato intorno al suo sottosegretario Armando Siri (Salvini ripete che non c’è alcuna ipotesi di farlo dimettere), spalleggiata dai forzisti che ribadiscono - sempre attraverso l’autorità di Berlusconi - come con caso Siri «sono venute allo scoperto le profonde, abissali differenze di un esecutivo dove al garantismo della Lega si contrappone il giustizialismo dei 5S». Dall’altra il Movimento 5 Stelle, che rimane deciso a definire Siri incompatibile con la continuazione del progetto di governo (e spaventato che, dopo il salvataggio di Salvini per il caso Diciotti, accettare anche il sottosegretario indagato sia letto come una abiura agli ideali storici; con al fianco il Pd, che dal fronte opposto della barricata condivide la richiesta di dimissioni e anzi invita il Parlamento a certificare il fallimento dell’Esecutivo. Come molte tempeste che hanno imperversato sul governo Conte, anche questa potrebbe concludersi nel proverbiale bicchier d’acqua. Un nulla di fatto concreto, che porti al consolidamento della pace armata ( magari in attesa delle Europee). Eppure, sul piano interno, lo spartiacque tra gli autoproclamati garantisti Lega e Forza Italia e gli intransigenti del Movimento 5 Stelle e del Pd, sembra ormai disegnare una nuova geometria sotterranea. Che potrebbe, però, emergere all’occorrenza, soprattutto se il voto del 26 maggio contribuirà ad alterare ancora di più gli equilibri dentro la maggioranza.